Probabilmente chi segue la scena del sottobosco musicale alternativo italiano, e diciamolo pure “estremo”, si sarà imbattuto in Dio Drone, label fondata da Nàresh Ran che oltre ad esserne la mente porta avanti un progetto a suo nome sfociato in un disco di debutto pubblicato nel 2017 (“Martyris Bukkake”) a cui fa seguito Re Dei Re Minore che uscirà domani non attraverso la sua etichetta bensì con l’olandese Breathe Plastic Records e Toten Schwan Records.
Le quattro tracce contenute nel disco sono il risultato dei continui viaggi fisici e mentali del musicista, interpretazioni sonore catturate durante esplorazioni di luoghi filtrate attraverso l’armamentario portatile con cui si sposta Nàresh,.
Il risultato è un disco sospeso nel tempo e nello spazio, tra droning e field recordings, noise e ambient messi in musica per creare un nuovo non-luogo dove abitare o sostare giusto il tempo dell’ascolto.
Con un giorno di anticipo rispetto all’uscita del disco Ran ci regala oggi – giorno del suo compleanno – lo streaming e il free download di “Veglia” accompagnata da uno scambio di battute per conoscere meglio il progetto e il musicista che sta dietro.
Intanto Re dei Re Minore è un titolo fantastico che si presta ad almeno due interpretazioni. Lo avevi già pronto prima di realizzare il disco o è arrivato come naturale conseguenza? Ce ne parli?
Ti ringrazio di cuore. È vero, si presta a diverse interpretazioni, e anche se ha un suono decisamente più elegante del precedente ‘Martyris Bukkake’ in realtà anche questo titolo è nato inizialmente per scherzo, e poi non sono più riuscito a liberarmene. Il percorso che ha portato alla genesi del disco ha preso quasi un anno intero, e la mia unica prerogativa era quella di raccontare qualcosa nel modo più personale possibile. Molti pensano che il mio sia un nome d’arte, ma ringraziando i miei genitori freakkettoni Nàreshran è il mio nome vero e proprio. È indiano e significa letteralmente ‘re dei re’. Impegnativo, lo so.‘ Re dei re minore’ è il soprannome con cui fui battezzato una sera da alcuni amici perché il re minore è appunto l’accordo più ricorrente nelle mie tracce. Ci fu una gran risata, e il gioco di parole si legò immediatamente in modo inossidabile al lavoro che stavo già portando avanti. Ironia delle stelle, a parte la ‘title track’ nessun altro pezzo del disco è in re minore.
Quello di cercare modi nuovi di realizzare la tua musica – mi riferisco al tuo approccio “on the road” – è dovuto al fatto che stare rinchiuso in studio non ti procura più stimoli? Hai un modus operandi quando registri?
L’approccio on the road non è stato subito una scelta stilistica, ma più una conseguenza spontanea del mio stile di vita. Non sono mai stato molto sedentario, adoro viaggiare da sempre e negli ultimi anni ho avuto la fortuna di poter girare molto con i progetti in cui suono. Vivere così per me è bellissimo ma ha anche un prezzo, primo tra tutti la quantità di tempi morti tra uno spostamento e l’altro. Credo che un musicista sia sempre un musicista, anche quando non si trova nelle zone comfort classiche del proprio ambiente (sala prove, palco o studio), e ho iniziato a pensare che sarebbe stato interessante procurarmi strumenti portatili per buttare giù idee ovunque mi trovassi. Alla fine non c’è voluto molto perché la passione per il ‘viaggio permanente’ si legasse irrimediabilmente al mio fare musica diventando un tutt’uno. Per dirla in modo più poetico, ho passato anni sentendomi fuori luogo ovunque e ho cercato un modo per portare sempre con me ciò che mi fa sentire ‘a casa’. Non ho un vero modus operandi, ma mi assicuro di avere sempre un paio di strumenti e un registratore in borsa quando esco di casa.
Siamo in piena crisi sanitaria e ci chiedono di restarcene rintanati in casa. In che modo pensi che il settore dell’arte, in questo caso della musica, possa trovare spunti per un rinnovamento?
È un argomento ampiamente dibattuto tra amici e conoscenti del giro musicale. È vero, è un momento storico che mette tutti in difficoltà, chi più chi meno e ognuno in modo diverso. Ma ho sempre pensato che l’arte in generale, così come la musica, nasce sempre dalla necessità. Per me suonare va oltre la scelta, è terapeutico e ne sento continuamente il bisogno. E in questo mio personale anno durissimo (perchè una pandemia mondiale non impedisce alle stelle di accanirsi anche su altri fronti) gli strumenti mi hanno decisamente salvato, come sempre, dal perdere il lume. Mi piace pensare che questo momento di stasi possa essere un’occasione per guardarsi dentro e rimettere insieme i pezzi che normalmente perdiamo per strada, e forse per questo fatico ad accettare che ci si possa anche sentire demotivati. Non c’è tempo per non aver voglia di fare.
A proposito di lockdown, dovessero obbligarti a non uscire di casa, quale sarebbe la tua colonna sonora ideale?
Uno dei pochi lati positivi dei momenti di clausura è stato proprio avere tempo da dedicare ad ascolti vecchi e nuovi, e a tutti quei dischi presi negli ultimi anni che non ho mai avuto la possibilità di ascoltare con la dovuta dedizione. A Marzo su tutti ha vinto la serie ‘Il Cartografo’ degli Uochi Toki, che oltre che visiva è anche un’esperienza sonora notevole. Detto ciò, vivo su un trafficatissimo incrocio stradale, e se questo ha aiutato i miei timpani ad abituarsi al rumore costante (e a renderlo piacevole per i miei neuroni) mi ha reso anche incredibilmente sensibile al profondo silenzio che ha accompagnato i giorni del lockdown. Un ‘non suono’ che ho ascoltato con timore reverenziale e rispetto quasi mistico, e che identifico come la colonna sonora ufficiale di quel momento.
Quanto influiscono sulla parte compositiva i luoghi che visiti, al netto dei suoni che catturi?
Tantissimo. Ma non è una novità il fatto che l’ambiente influenzi sempre le sonorità che si vanno a creare in loco. Da appassionato di cinema ho sempre apprezzato la stretta connessione tra atmosfera, immagini, luoghi e suoni. Quando ho iniziato a giocare con i field recordings filtrati nei miei strumentini portatili non pensavo che questo mi avrebbe portato a farne un disco, e non mi sono posto limiti o binari sulla direzione da prendere. Ho lasciato che i luoghi imprimessero la loro identità sulle tracce che lentamente si sviluppavano e gli strumenti sono stati un tramite, così come il nostro corpo stesso traduce in modo personale tutti gli stimoli sensoriali che ci arrivano dall’esterno.
Ti andrebbe di fornire qualche coordinata su “veglia”?
Veglia è nata da un carillon registrato in un negozio dell’usato. È rimasto nella memoria del mio registratore per settimane, come in attesa, e alla fine il pezzo è uscito di getto nell’arco di una nottata insonne – l’ennesima, perché il sonno facile è una dote che gli dei non hanno voluto regalarmi – imbastito insieme ad altri suoni che avevo rubato in giro in quei giorni. Non ci sono voci, ma il titolo dice molto. È una traccia intima e delicata, la più melodica di tutto l’album, e volevo che suonasse come un dialogo solitario sussurrato, dedicato a chi non può riposare e a chi aspetta.
Come pensi sia cambiato il tuo approccio alla composizione rispetto al precedente disco?
Ho suonato live per anni prima di decidermi a pubblicare qualcosa. “Martyris Bukkake” è stato importante in questo senso, perché ha sbloccato tutta una serie di convinzioni che non mi avrebbero permesso di vivere le belle esperienze che sono arrivate in seguito. Sono due dischi estremamente diversi tra loro. Per il primo ho messo insieme un’orchestra di otto elementi, e ogni musicista ha dato il suo personale contributo rendendo l’album ciò che è, mentre “Re Dei Re Minore” è un viaggio che ho scelto di fare da solo dal punto di vista compositivo. L’unico passeggero, per così dire, è Riccardo Rico Gamondi (Uochi Toki) che si è occupato di mix e mastering, e di cui volevo assolutamente percepire il tocco sul suono generale dell’album. “Martyris” è strettamente collegato ad altri aspetti della mia persona. È un lavoro che voleva suonare più magico, scuro e solenne come un rito, e musicalmente era un pò la summa di tutto ciò che ho ascoltato per anni e che ho voluto interpretare alla mia maniera. “RDRM” non ha un immaginario prestabilito, è più un diario di bordo segnato da consapevolezze e mezzi diversi, che portano irrimediabilmente verso altri orizzonti meno identificabili. Ma per quanto diversi restano pur sempre due capitoli dello stesso libro.
Di solito chiudiamo le interviste facendo un po’ di promozione live. Do per scontato che per il momento non farai attività dal vivo e allora ne approfitto per farti questa domanda dopo aver letto il comunicato stampa che recita! “NR è vegetariano e ha un debole per sakè e whiskey, e nonostante la veneranda età dorme ovunque. un materasso in terra è ok, un divano è buono e un letto è fantastico.”Hai qualche situazione assurda o meritevole di essere ricordata?!
Credo che non valga solo per me, ma al ritorno da un tour più che i concerti mi ritrovo sempre a raccontare gli imprevisti più assurdi che mi sono capitati, perché ne succedono sempre ed è bello così. Difficile sceglierne una soltanto. Tra quella volta che ci fermò l’antidroga mentre guidavo vicino Monaco, o quando dovetti dormire dividendo una minuscola brandina con un chitarrista che si era bendato (per non svegliarsi all’alba) e tappato la bocca con del nastro adesivo (per non andare in iper ventilazione durante il sonno, o qualcosa del genere). O quando suonammo durante un punkissimo torneo di ping pong ad Amburgo. Ma direi che su tutte vince quella volta che mi addormentai sul palco durante il mio stesso concerto rischiando la performance drone definitiva (true story, ma tralasciamo quando, dove e perché).