
Si è fatta conoscere come compositrice, arrangiatrice, pianista e direttrice d’orchestra, con dei dischi ariosamente jazz, freschi come come il suo giovane talento. Si è fatta notare. Ci aveva abituati bene, con quell’appeal un po’ naif da cantautrice ma con l’eleganza insita dei salotti della musica alta. Musica alta, che per qualcuno può essere snob, si direbbe radical chic ai nostri giorni (nel decennio passato per di più), facile quando un usignolo dalle sembianze di una fine ragazza del Sud porta sul palco i suoi gorgheggi cristallini che sanno di terra e di cielo, senza essere così stucchevolmente “di sole, di mare e di vento”, ecco, per intenderci. Ma l’artista vero si riconosce quando rompe lo stereotipo e apre alle sperimentazioni, e questo disco, per Carolina Bubbico, è un po’ il disco della sorpresa, più che della conferma e della maturità.
Non possiamo parlare di fase di maturità, visto che non c’è mai stata una fase di ingenuità (anzi!), e neanche di conferma visto che era già chiaro che la ragazza avesse gusto e lavorasse con un certo raziocinio. Parlare di sorpresa forse è più appropriato, non per mancanza di fiducia, ci mancherebbe, ma perché è uno dei pochi casi in cui si possono avere aspettative tra le più disparate ma sicuramente non era questo che ci si poteva aspettare. Si passa dai precedenti lavori cantautorali dal sapore jazz e mediterraneo ad un disco che raccoglie ispirazioni diverse e un’artista che finalmente esplora le sue mille potenzialità, grazie a una grande voglia di raccontarsi apertamente, con dei testi fluidi, onesti, personali e spigliati, ma anche grazie a featuring totalmente azzeccati. Il gusto classico resta non tradito grazie a brani come “Jungle” e “Amore infinito” ma il divertimento è garantito sin dall’apertura con “Bimba” fino a “Respirare” passando per “Baby” in cui il funk che ricordano una ballerina Janelle Monae o una giovane Katy Perry, con i testi che scorrono velocissimi, e poi lenti e caldi, tutto arrangiato un po’ più syntheticamente del passato, poco, quel tanto che basta per dare al tutto un retrogusto più di pop internazionale. Internazionale anche senza troppi voli pindarici, passando da cocktail di samba (“Tabù”, “Hey Mama”), di deserto con Baba Sissoko (“Voyage”), di vecchi e fumosi jazz club newyorkesi con Michael Mayo (“Beverly Hills”), di colonne sonore del classicone di Ozpetek ambientato tra i costumi del Salento dorato e luminoso (“Santa Croce Liberata”), e sempre per restare in Salento, c’è anche il momento di relax informale con niente meno che i Sud Sound System (“Italianità”) e due intermezzi che lanciano lo spunto su quello che poteva essere, forse potrà essere al prossimo giro, chissà, vediamo, intanto lo fisso qui (“Skit 1” e “2”). Una carrellata di sorprese, che sembrano avere poco o niente da condividere, ma nella terra delle meraviglie della sua testa riescono a reggersi il gioco a vicenda, contribuendo ad aprire nuove strade senza che si debba prenderne nessuna troppo esclusivamente sul serio.
In un’annata difficile come mai prima, dove tutti soffriamo, e il mondo dell’intrattenimento in particolare, un disco come questo è la boccata d’aria di cui avevamo bisogno. È con dischi come questo che gli artisti ci ricordano quanto la musica possa essere il sale delle nostre giornate, quanto possa essere i nostri viaggi mentali nei nostri universi, i nostri sorrisi, le nostre confessioni, la nostra colonna sonora, e ci fanno capire che vale anche la pena sostenerli gli artisti che amiamo, che non è scontato avere qualcuno che dall’altra parte del mondo ti faccia sentire parte di qualcosa. Ma ne siamo parte tutti e abbiamo tutti bisogno di non dimenticarlo.
(Carla Di Lallo)
