A tre anni di distanza dallo scintillante debutto “Stranger in the Alps”, che aveva mandato in visibilio la critica per la scoperta di una nuova voce alternative folk importante, Phoebe Bridgers si ripresenta con Punisher, un disco che gioca tra la cupezza malinconica dei testi, che raccontano di una relazione giunta al capolinea e delle insicurezze e del terrore successivo al distacco, e la nitidezza del proprio timbro vocale, che sembra sempre solare, lasciando solo intuire un fondo di malinconia.
Ammantato delle strazianti suggestioni di Joan Didion, straordinaria narratrice e saggista americana, “Punisher” ci fa entrare ancora di più nell’universo di una cantautrice che si dipana tra un’anima malinconica e una vena ironica ed autoironica straordinaria, con quegli sprazzi di causticità che tanto piacciono ai millennials (in “Moon song” viene fuori l’odio per un certo tipo di rock “vecchio stile”).
La Bridgers gioca con la malinconia, ne fa la sua migliore amica e la dà in pasto con autenticità a un pubblico che certamente (quello che va dai 20 ai 30 anni) saprà riconoscersi in certi accenti.
Siamo di fronte alla nuova Elliott Smith (che lei stessa dichiara essere stato “più importante dei Beatles” per lei)? Presto per dirlo, certamente Phoebe va a fare compagnia ai Bright Eyes (sia Conor Oberst che Nathaniel Walcott sono presenti nel disco e con il primo Phoebe ha già all’attivo il progetto Better Oblivion Community), ai National (anche con Matt Berninger ha già lavorato per il brano “Walking on a string”) e ai Big Thief in quel filone di indie rock che tanto piace ai ventenni e trentenni di oggi.
La Bridgers ha ormai il suo stile, che pare già consolidato dopo soli due lavori e sicuramente sa già chi è il suo pubblico, a cui parla con un’autenticità e una schiettezza già sorprendenti, frutto dei suoi 26 anni.
(Alessio Gallorini)