Terminal è il profetico titolo dell’album d’esordio dei submeet, fuori su Lady Sometimes Records. Il trio è al suo debutto con quest’album, pur avendo alle spalle sporadiche uscite digitali ed una in cd, datata 2017. L’attività live è sempre stata, invece, molto intensa. Infatti i submeet hanno saputo raccogliere l’apprezzamento anche dei mostri sacri del new post punk, Preoccupations, di cui hanno aperto una data al Covo di Bologna.
Il disco, pur non essendo un concept album propriamente detto, ha una linea comune nei testi legata al disagio del vivere sociale in ambienti post industriali. Luoghi non-luoghi dove lo smart working ha eliminato le distanze, semplicemente cancellandone il concetto stesso. I corpi stanno lontani per definizione, processati tramite webcam dalla risoluzione parziale e le voci sono un condensato di impulsi elettrici. Così anche il suono dei tre mantovani è elettrico nel senso più cupo e disturbante del termine. I riverberi e le distorsioni alienano l’ascoltatore, confondono e frullano la mente. Le emozioni si accavallano e il nervosismo genuino e spontaneo della voce fa inconsapevolmente digrignare i denti di chi si lascia catturare dal malessere espresso.
I suoni sono eccezionali: il basso percosso straborda ad ogni nota, la chitarra è schizofrenica nelle sue esplosioni noise e nella tessitura di linee destrutturate. La batteria, infine, è un insieme di lontani colpi metallici, che sembrano far implodere tutto. Micidiale esempio di post noise è la velocissima “Boelcke”, infuriata e ipersatura traccia di metà disco. La title track e, soprattutto, “Nimby” sono canzoni perfette e dal forte carattere internazionale e richiamano quei tardi anni 80, alla base nella nuova ondata shoegaze.
Il disco si chiude con un altro gioiello: “Audiodrome”. Il richiamo agli universi umano-meccanici di Cronerberg non è solo nel titolo, ma anche nell’atmosfera cupa ed opprimente, che si respira nel pezzo. Non sembra esserci più spazio nei timpani di chi ascolta, così come nel range di frequenze saturabili. La chitarra è perennemente impegnata in disgraziate sferzate noise. Il basso e la batteria sono impazziti e la voce sembra l’unico elemento che cerca di mettere un ordine in un meraviglioso caos industrial, che sublima il concetto di distruzione sonora. La parte conclusiva del pezzo è affidata a droni eterei, tregua apparente, prima del feroce finale.
Davvero notevole, infine, il lavoro eseguito per quanto riguarda l’artwork ed il supporto stesso: un bellissimo vinile giallo. Il gelido bianco e nero, così come il soggetto stesso, accompagnano alla perfezione il contenuto musicale del disco.
(Aaron Giazzon)