Non succede spesso di ascoltare un disco e pensare che sia geniale e poi ascoltare il successivo e sentirsi completamente spiazzati, rileggere il nome in copertina e chiedersi se si tratti dello stesso artista. Ecco cosa vorrei fosse la musica: creatività e coraggio, sperimentazione e follia, un mondo senza confini e senza condizionamenti. Yves Tumor è esattamente così. Che si chiami davvero Sean Bowie, che sia realmente nato a Miami, che abbia abitato un periodo della sua vita a Torino non mi importa granché. Mi interessa che questo personaggio non perda quella sorgente di idee che lo ha portato due anni fa a pubblicare un album di avant-jazz-elettronica innovativo e ricco di spunti come “Safe in the Hands of Love” e a far uscire un nuovo lavoro come questo Heaven to a Tortured Mind.
Sperimentare significa esattamente questo: non restare ancorati ad un terreno nel quale la ricerca ha dato comunque i suoi frutti ma virare rotta ed esplorarne un altro, totalmente sconosciuto. Penso che questa sia la dote migliore di chi si ritiene un artista e di certo Yves Tumor lo è.
Se il disco precedente costruiva atmosfere e giocava con la suggestione, qui è come essere in un teatro dei sobborghi di New York, con uno stile a-la Rocky Horror Picture Show, dove l’ambiguità, la provocazione e l’ostentazione di una condotta oscena ed estrema sono al centro del palcoscenico. Laddove la curiosità è ciò che spinge ad assistere a quell’insolito spettacolo, la musica è ciò che impedisce di andare via; si ascolta di tutto: Seventies, glam, rock, funk, pop, noise. Proprio quello che non ci si aspettava ma accuratamente orchestrato dal produttore americano, molto ben suonato, con una maggiore attenzione alla componente più fisica del Rock.
Si resta subito storditi dalla partenza grintosa di “Gospel for a New Century” (anche senza guardare il video si percepisce il sorriso luciferino di Tumor, tanto è recitato il cantato), svettano pezzi come “Kerosene!”, “Romanticist” e “Dream Palette” (e non è un caso che le co-protagoniste vocali siano donne, rispettivamente Diana Gordon, Kelesy Lu e Julia Cumming), in “Super Stars” sembra esplicitarsi l’inconfessabile desiderio di ogni rockstar (“I only to make hits. What else would I want to make?”) e “Strawberry Privilege” ricorda quasi una “Lovecats” di un’altra epoca, dove niente è come sembra.
Forse non ci si poteva aspettare di meno ma di certo non si poteva chiedere più.
(Patrizia Lazzari)