Sono circa due mesi, da quando “At the Door” ha fatto il suo ingresso sui canali musicali, che ci si chiede come sarà il nuovo disco degli Strokes. Sarà una ciofeca come gli ultimi due o un capolavoro come i primi tre? “At The Door” non è proprio quello che si definisce un pezzo trascinante, e certo è che l’anno prossimo la band compie vent’anni dall’esordio e diventa anche fisiologico che “non siano più quelli di una volta”. Ma poi sono apparsi altri due singoli, “Bad Decisions”, che andando oltre la citazione di Billy Idol e la sua “Dancing With Myself”, porta in dote un arpeggio pulito e arioso su cui Casablancas sembra persino avere della voce da spendere.
Ma, a ridosso dell’uscita di The New Abnormal, questo il titolo deciso per il ritorno sulle scene dopo ben 7 anni, ecco spuntare “Brooklyn Bridge To Chorus”, che con quella chitarra acida sovrastata da un basso pulsante gioca contro se stessa per la palma di miglior pezzo dell’album. E se “The Adults Are Talking” è un tirare i fan per la giacchetta per ricordar loro che Casablancas-Valensi-Moretti-Hammond Jr. sanno ancora come si fa, possiamo altrettanto a cuor leggero stabilire che “Why Are Sunday’s So Depressing” rappresenta bene questo disco, con un sound molto newyorchese che comunque rappresenta un disco con una precisa identità stilistica, dove le chitarre si abbracciano coi synth che ormai se non metti un synth da qualche parte non sei nessuno. In fondo alla tracklist troviamo due belle ballad molto ispirate, “Not The Same Anymore” e “Ode To The Mets”, che sembra quasi il testamento della band: “Gone now are the old times, so pardon the silence that you’re hearing”. E forse sta qui la contraddizione, la “confusione”, se vogliamo, testimoniata già dall’horror vacui di una copertina che altro non è se non “Bird on Money”, opera di Basquiat.
Non si capisce se questo disco sia bello come dato oggettivo o diventi bello nella soggettività del ricordo di ciò che erano gli Strokes fino a “First Impression of the Earth”; certo è che facendo un disco che ammicca ai “vecchi Strokes” diventa ancor più difficile distinguere tra la performance paracula e la ripresa di vecchi suoni, vecchie suggestioni e magari, chissà, vecchie ispirazioni. Dovesse essere l’ultimo atto della band, sarebbe una specie di “best of”, e allora potremmo lasciarci serenamente, provando anche a rimanere amici.
(Mario Mucedola)
The Strokes o, per meglio dire, il più grande bluff degli anni 2000, possiamo ribattezzarli così?
Dopo averci illuso con due album (“Is This It” e “Room On Fire”, rispettivamente 2001 e 2003) che facevano gridare al miracolo, Julian Casablancas e soci hanno inanellato via via una serie di episodi che definire mediocri è fargli quasi un complimento, rispetto all’hype che si era creato intorno a loro e all’indubbio talento di cui la band è provvista.
A 7 anni di distanza dal terribile “Comedown Machine” si intravede qualche spiraglio di luce per gli Strokes, che non vengono fulminati sulla via di Damasco ma perlomeno, con “The New Abnormal” azzeccano alcune canzoni buone e riescono a portare a casa un disco più che dignitoso, che riesce a mescolare qualche riff da band chitarristica lo-fi (come erano agli inizi) con un gusto pop traslato direttamente dagli anni ’80 (Billy Idol sei tu?).
Casablancas limita i falsetti all’essenziale e pezzi come “Bad Decisions”, in cui lo spettro di Billy Idol è ben più che presente (“Dancing with myself” vi dirà qualcosa), ma anche “Brooklyn Bridge to summer”, forse il gioiello più splendente del disco, o “Not the same anymore” funzionano alla grande grazie ad una sezione chitarristica in grande spolvero, segnalandosi come possibili hit radiofoniche, esaltate dalla produzione del solito Rick Rubin, che si conferma eclettico come non mai.
Da segnalare anche l’ispirata chiusura “Ode to the Mets”, una ballad in cui la voce di Casablancas dà il suo meglio su un impianto musicale piuttosto scontato ma che ha almeno il merito di non risultare piatto. Insomma gli Strokes non si può dire che abbiano scritto un disco clamoroso, ma rispetto agli ultimi lavori è comunque un passo avanti.
Un disco che merita più che la sufficienza e ci dà la speranza di aver riportato in vita una band che avevamo già dato per musicalmente spacciata.
(Alessio Gallorini)
Mi sono apprestata ad ascoltare la nuova uscita degli Strokes con scarso entusiasmo.
Dopo averli tanto amati per quell’album rivelazione che era stato “Is this it”, li avevo ormai relegati nella cartella delle band da dimenticare dopo gli ultimi due indifendibili lavori (qui un amarcord di sette anni fa).
Il singolo “At the door” non mi aveva trasmesso granché e, pur avendo del tempo a disposizione (unico regalo di questa altrimenti insopportabile quarantena), l’idea di doverlo sprecare ascoltando una produzione musicale come le ultime due lo trovavo inaccettabile. Comunque la collaborazione con Rick Rubin mi aveva convinto a dare all’ex quintetto newyorchese ancora una chance.
Inaspettatamente, già dalla opening track “The Adults Are Talking” ha preso istintivamente forma un sorrisino a-la Robert De Niro nel finale di “C’era una volta in America” e ho pensato: stavolta c’è qualcosa di buono.
E andando avanti con il player, da “Brooklyn Bridge to Chorus” a “Not the Same Anymore” (tra i pezzi migliori), quell’iniziale ghigno si è trasformato in un sorriso di deciso e convinto apprezzamento; bella anche l’idea di un brano come “Bad Decisions”, che sembra una cover di “Dancing with Myself” ma poi si scopre che non lo è (oppure lo è ma solo in parte, dato che Billy Idol è giustamente e onestamente menzionato nei credits).
Non si può dire altrettanto dell’analogo tentativo compiuto con “Eternal Summer” (anche qui i rimandi alla celeberrima “The Ghost in You” dei Psychedelic Furs sono più che evidenti), con un Julian Casablancas ad esibire un falsetto francamente eccessivo. Ma è solo una caduta temporanea perché la voce del lead singer dà comunque ottima prova in tutti gli altri brani, più controllata e matura che mai.
Nessuno è più come era vent’anni fa per quanto i brani più movimentati restano quelli in cui gli Strokes danno il meglio ancora oggi, segno che se c’è ancora qualcosa da dire o da dare è all’ispirazione degli inizi che bisogna far riferimento.
Durante il concerto di capodanno al Barclay Center di New York li buon Julian ha esclamato: “The 2010s, whatever the fuck they’re called, we took ‘em off. And now we’ve been unfrozen and we’re back”.
Che questo The New Abnormal abbia riportato un po’ di calore (nella loro musica e tra gli ascoltatori) è sicuro, che siano tornati è ancora presto per dirlo. Ma per il momento vogliamo e possiamo essere fiduciosi.
(Patrizia Lazzari)