A cinque anni di distanza da “Carrie & Lowell” torna sulle scene forse il musicista più ispirato degli ultimi 20 anni, quel Sufjan Stevens che ci ha fatto innamorare con brani come “Should have known better” o un disco mastodontico come “Illinoise”.
Se vi eravate innamorati dello Stevens folk di “Carrie & Lowell” dovete però dimenticarlo, perché quello che ricompare oggi è un musicista che decide di improntare tutto il suo lavoro sull’elettronica, realizzando un lavoro (in compagnia del patrigno Lowell Brams, proprio quel Lowell citato nel disco precedente) di ben 21 tracce che si dipanano come un viaggio, una guida intergalattica in cui i synth sono le luci del percorso e in cui Sufjan è un moderno Virgilio o Diogene Laerzio, con la lanterna in mano.
Quello che potrebbe sembrane un banale mix di tracce a sè stanti a un primo ascolto, si dimostra via via quasi un sentiero filosofico, in cui fin dai titoli si percepisce quello che Stevens vuole comunicare, lavorando sulle sensazioni, sugli stati d’animo. Dall’Aporia del titolo del disco (letteralmente: mancanza di senso), si passa per la “Misology” (misologia: mancanza di fiducia nei procedimenti discorsivi) fino alla “Ataraxia” (letteralmente: imperturbabilità, intesa come assenza di passioni) per chiudere con la “Eudaimonia”, parola greca che esprime il concetto di felicità intesa non solo come momentaneo benessere, ma come scopo della vita basato sull’etica.
Insomma Sufjan, a colpi di synth (con brani e intermezzi che variano dai 33 secondi ai 3 minuti e 36) non fa solo musica, fa filosofia attraverso la musica: il che lo eleva ancora una volta nell’iperuranio, per dirla con Platone, ad un livello troppo superiore rispetto a ciò che siamo comunemente abituati a sentire.
(Alessio Gallorini)