Vi abbiamo descritto Komorebi, nuovo lavoro di Flamingo, come uno di quei dischi di cui innamorarvi e da cui lasciarvi accompagnare, soprattutto in un periodo così alienante come quello di questa quarantena.
Abbiamo parlato con Lavinia Siardi, colei che si nasconde dietro il progetto, per farci raccontare come è nato questo disco e cosa si nasconde dietro “la luce che filtra tra le foglie degli alberi“.
Il disco è nato dalla tua esperienza di vita in Giappone, ci racconti cosa ha significato per te e quando ti è venuta l’idea di trasporre certe sensazioni in musica?
Gli anni che ho trascorso in Giappone sono stati anni densi e sconvolgenti, che mi hanno cambiato profondamente. Quando sono partita l’ho fatto perché volevo uscire dalla mia comfort zone milanese: direi che ci sono riuscita molto (troppo) bene.
L’idea di trasporre le sensazioni di quegli anni così complessi in musica è stata in realtà assecondare quello che per me è un processo di auto-salvataggio che applico ogni volta che mi trovo in un momento di difficoltà: scrivo e suono per portare quello che dentro di me non trova una quadra all’esterno, e fortunatamente nel processo di scrittura solitamente riesco anche a meglio comprendere i miei grovigli interiori.
“Komorebi” significa “luce che filtra tra gli alberi”, come mai la scelta di questa perifrasi?
Dobbiamo a Iulian Dmitrenco, che ha scritto i bassi e ha lavorato insieme a Giacomo Carlone e alla sottoscritta sul disco, l’aver messo questo termine sul tavolo per la prima volta. Mi è piaciuto subito: nonostante Komorebi sia un disco molto scuro vuole anche rappresentare una catarsi, un’auto-guarigione, e tenere quindi d’occhio una luce che è ancora filtrata ma in qualche modo percepibile e raggiungibile.
In cosa è cambiata Lavinia dopo quell’avventura?
Ho imparato a scremare le cose importanti e che mi fanno stare bene da quelle che sono delle imposizioni terze, o delle auto-suggestioni spesso tossiche.
Ho iniziato a passare molto più tempo da sola, per conoscermi e ri-conoscermi dopo degli anni di totale alienazione.
Ho dovuto prendere alcune decisioni molto drastiche e lasciare andare alcune persone e situazioni che non mi facevano stare bene, per fare spazio ad altre in cui invece mi sentivo a mio agio e in equilibrio.
Dopo un primo periodo di riambientamento piuttosto doloroso, sento di esserne uscita più forte e più a fuoco, e sono estremamente grata a tutte le persone che mi sono state vicino durante questa metamorfosi.
Ci racconti come è l’approccio con la musica e i live dall’altra parte del mondo e se per te è cambiato in qualche modo?
Il pubblico giapponese è un pubblico estremamente attento. Ricordo ancora che ai primi live acustici che ho fatto il silenzio e l’attenzione che c’erano mi spiazzavano, quasi mi intimorivano.
La community dei musicisti invece l’ho trovata molto meno inibente di quella italiana: l’impressione che si ha nei backstage, anche quelli con personaggi noti al pubblico, è sempre quella di un forte rispetto e professionalità, senza eccessivi divismi o pretese.
Concludo dicendo che però rendere sostenibile la propria attività di musicista indipendente è molto più complesso che in Italia: ho amici i cui manifesti campeggiano al famoso incrocio di Shibuya, che suonano al Blue Note e che sono ancora costretti a fare i camerieri per sopravvivere.
“Komorebi” è un disco che trovo universale e molto attuale, capace di raccontare quelle sensazioni di alienazione e spaesamento, ma anche di voglia di combattere, che tutti abbiamo provato nella vita… te ne rendevi conto mentre lo componevi? Come ti fa sentire riascoltarlo oggi?
Innanzitutto grazie, sapere che almeno per qualcuno è “relatable” mi fa sentire davvero bene – e ammetto che speravo che il disco potesse assumere delle tinte riconoscibili non solo dalla sottoscritta!
Riascoltarlo oggi mi fa tirare un sospiro di sollievo: è come se tutte le insicurezze e le difficoltà dei miei anni giapponesi si fossero cristallizzate al suo interno, con la speranza che anche solo per pochi minuti questo disco possa far sentire meno sole anche altre persone che hanno vissuto situazioni emotivamente e umanamente simili.
Sperando di poterne godere presto, cosa dobbiamo aspettarci da un live di Flamingo?
Non avrei mai pensato di dirlo di un mio live, ma ci possiamo aspettare tanta violenza, intesa nel senso di sfogo, catarsi, rito collettivo di rilascio di rabbia e frustrazioni accumulate. I suoni saranno affilati, distorti, e il desiderio è quello di estendere questa bolla di sfogo al pubblico, in una sorta di seduta collettiva in cui lasciarsi andare tutti assieme.
Ma forse sto esagerando, quello che posso dire con certezza è che dai live che abbiamo fatto prima della pubblicazione del disco sono sempre uscita sudatissima e con le ginocchia livide per i troppi salti.
E infine, se dovessi citare un disco e un libro che ti hanno influenzato nella composizione del tuo lavoro o semplicemente che ti hanno portato a fare musica di un certo tipo, quali sarebbero?
Più che un disco ti citerò un live: Nick Cave a Lucca, un paio di anni fa. Non suonerei come suono ora se quella notte non avessi imparato che bisogna dimenticarsi di se stessi quando si suona e quando si sale sul palco, per lasciare cadere inibizioni e limiti autoimposti e dare tutto, senza vergogna. Un libro che da anni mi accompagna nei momenti di scrittura è Just Kids di Patti Smith: un inno a una vita imperfetta ma terribilmente vera, nonché una fonte inesauribile d’ispirazione letteraria e musicale.
(Alessio Gallorini)