È sempre facile, quando si parla di “undicesimo album”, prendere la questione sottogamba, quasi a dire “questi sono ancora qua?” ed in effetti si contano sulle dita i gruppi rimasti credibili dopo trent’anni di musica, come se le band avessero una data di scadenza. I Pearl Jam rientrano decisamente in questa categoria. Se “Lightning Bolt” non aveva certo fatto gridare al miracolo, è pur vero che dopo sette anni Eddie Vedder e i suoi potrebbero aver imparato dai propri sbagli. E per non sbagliare più, partoriscono un disco dove c’è tutto. Il rock, il garage, il grunge, la dance, le ballad, l’unplugged. Parliamoci chiaro, trent’anni sono passati per tutti, è impensabile trovare in “Gigaton” gli stessi tormenti dei primi album ma vi si trova senza dubbio una vis polemica che è cresciuta nella band di Seattle di pari passo con la loro consapevolezza di essere una voce di riferimento generazionale. E chiaramente il malcontento si scaglia contro “Sitting Bullshit”, Stronzata Seduta come viene rinominato il presidente degli Stati Uniti parafrasando il nome del celebre capo indiano Toro Seduto. Ma le sventagliate di chitarre ci sono, quelle sono rimaste intatte negli anni. E se “Comes Then Goes” è dedicata a Chris Cornell, si può dire anche che questo album abbia un picco emozionale. Non un disco fondamentale, né nella loro carriera né nella storia del rock ma di sicuro molto più di un album semplicemente gradevole.
(Mario Mucedola)
Una band che ha alle spalle trent’anni di onorata carriera, sopravvissuta egregiamente alla rivoluzione digitale che ha cambiato il mondo (compreso quello musicale) da vent’anni a questa parte, merita rispetto. Innanzitutto.
Detto questo, i Pearl Jam, all’epoca del grunge, sono sempre stati i più “rock” di tutti nel senso classico del termine e si sono mantenuti fedeli alla linea. Ogni loro uscita è sempre stata un po’ una garanzia, diciamo. Niente di sperimentale, nessuna svolta imprevista, un’identità chiara e precisa li ha portati ad essere quello che sono ancora oggi.
Anche questo nuovo “Gigatone”, uscito a distanza di sette anni dal precedente, sottolinea prepotentemente la loro caratteristica principale: musica suonata, sudore, strumenti e tanta passione. Un altro elemento impossibile da non notare è la voce di Eddie Vedder, che a differenza di tutto quello che ci circonda (compresi noi stessi), non è invecchiata per niente: furiosa, granitica, incisiva come poche.
Ma alcune novità saltano all’occhio (e all’orecchio): l’insolita pubblicazione di ben tre video (“Quick Escape”, “Dance of the Clarvoyants”, “Superblood Wolfmoon – un divertente fumettone) per un gruppo che finora era totalmente refrattario all’idea, il fatto di aver composto l’album per la prima volta in sessioni separate ma con il totale coinvolgimento di quasi tutti i membri della band nella realizzazione dei brani (testi e musica in “Alright” sono del bassista Jeff Ament, in “Take the long way” del batterista Matt Cameron e in “Buckle Up” del chitarrista Stone Gossard). Lo stesso produttore Josh Evans ha suonato le tastiere in vari pezzi.
Un album corale quindi che però, pur nulla togliendo all’onestà e alla coerenza dei Pearl Jam (invettive contro Trump, tributi agli storici capi dei Nativi Americani, l’immancabile riflessione sui cambiamenti climatici), non è quello che ci si aspettava dopo tutta questa attesa.
I pezzi scorrono con grinta e sembrano costruiti apposta per essere suonati dal vivo ma certi inserimenti di sintetizzatori (“Dance of the Clarvoyants” riecheggia i Talking Heads a detta di molti… niente da dire sui T.H. ma mai avrei pensato di sentirli accostare ai Pearl Jam!), l’incedere da hard rock di maniera di “Quick Escape”, i cori femminili di Meagan Crendall in una troppo radiofonica “Take the long way” inducono troppe volte alla tentazione di mandare avanti, come se arrivati a metà brano si fosse già sazi.
Ecco, se dovessi dare un voto la piena sufficienza la attribuirei soprattutto alle ballad (“Retrograde”, “River Cross”) che riportano alle atmosfere ovattate di “Into the Wild” e che sono le composizioni più rustiche ed emotivamente d’effetto ma tutto il resto scorre senza che nulla rimanga particolarmente impresso, né un giro di chitarra, né il titolo di un pezzo. Insomma, delle emozioni sprigionate da “Gone”, dei brividi intensi di “Nothingman”, della carica di “Given to Fly” o delle note struggenti di “Come back”, ahimé, non vi è traccia.
Io continuo a volergli bene come all’inizio, il mestiere c’è e non si discute ma decisamente si poteva fare di più.
(Patrizia Lazzari)
Lo ammetto, sono uno di quelli che, dopo aver sentito “Dance of the Clairvoyants” aveva storto il naso: pezzo troppo alla Talking Heads, poco vocalmente nelle corde di Eddie Vedder (e non essere nelle corde di Vedder ce ne vuole), insomma un suono sì nuovo, ma nemmeno originale e poco adatto ai Pearl Jam, che mi faceva temere che “Gigaton” sarebbe stato un buco nell’acqua.
Sentendo invece tutto il nuovo lavoro della band di Seattle, che giunge a 7 anni di distanza da “Lightning Bolt” (non certo un disco da ricordare), ritroviamo dei Pearl Jam estremamente centrati, che hanno fatto del loro collettivo ancora di più la loro forza.
Jeff Ament e Mike McCready sono più che perfetti scudieri di Vedder, sono sfaccettature dell’anima di questa famiglia musicale e portano le loro influenze, con la penna di Eddie che spaventa per lucidità nei testi, capacità di leggere un’attualità che era ancora futuro quando lui stava scrivendo i brani.
“Home is where the broken heart is/Home is where every scar is”. Recita l’iniziale “Who ever said”, continuando “Swallow my pencil and bleed out my pen/surrender the wish we’ll be together again/But I won’t give up on satisfaction”: un inizio che, a ritmo di rock senza tanti fronzoli, lascia già intuire i temi del disco, un disco scritto per spingere alla reazione verso un presente (e un futuro) sempre più bui ed incerti.
Di “Dance of the Clairvoyants” si è già detto mentre, per tornare sull’apporto di Ament, bisogna soffermarsi su “Alright”, un suo brano che è anche il primo rallentamento del disco, un gioiellino piazzato a metà lavoro che sottolinea anche i lati positivi e la bellezza di sapersi godere la solitudine.
In un lavoro che complessivamente non ha crolli verticali, ma atmosfere care ai Pearl Jam (“Quick Escape” con omaggio a Freddie Mercury, “Take the long way” che ci mostra il tocco scatenato di Matt Cameron, “Never Destination”, classica rock song alla Vedder) i capolavori arrivano verso la fine: il trittico finale è da brividi e due brani come “Come then goes” e “River cross” (che Eddie già ha eseguito nel tour solista) sono destinati a diventare due instant classics; nel mezzo alle due fa capolino “Retrograde” che recita:“The more mistakes, the more resolve/It’s gonna take much more than ordinary love to lift this up”, prima di crescere su un ritornello che solo la penna ispirata di Vedder poteva partorire: ”Stars align they say when things are better than right now/Feel the retrograde spin us round”. Una vera bomba.
Bentornati Pearl Jam e scusate se avevo dubitato di voi.
(Alessio Gallorini)
Ok anche questa volta Vedder e soci ci hanno fregati! Già col precedente disco “Lightning Bolt” promettevano letteralmente fulmini e saette quando invece alla fine il tutto si rivelò una leggera pioggerellina estiva di cui non rimane che un flebile ricordo. Sette anni dopo ci riprovano con “Gigaton” e nei mesi prima dell’uscita, quando si avevano a disposizione pochi elementi (titolo, copertina e tracklist) in tanti hanno sognato un ritorno al fulmicotone: 1 miliardo di tonnellate di tritolo dovrebbero spaventare anche la più brutale band metal, aggiungi quella copertina che mette ansia coi sui giganti di ghiaccio pronti a franare nell’oceano causando un macello degno del miglior disaster movie hollywoodiano. E invece?
E invece no. Gli intenti vengono subito smentiti dal primo singolo “Dance of the Clairvoyants”, un electro rock che “svecchia” il suono classico della band di Seattle e fa pensare ad una decisa svolta e modernizzazione (con buona pace dei vecchi fan duri e puri), dove scorgiamo anche un cambio di ruoli (Ament e Gossard si scambiano gli strumenti). È forse questo lo scossone che la band vuole dare? No. Perché già dal secondo singolo “Superblood Wolfmoon” (dimmi se questo titolo non faceva pensare ad un incattivimento nelle sonorità dei PJ) ritroviamo la scrittura sostenuta che ci rimanda indietro di qualche decade (“Yield” può bastare?), un pezzo veloce e radio-friendly che farà impazzire i fan durante i live. Stranamente questi due sono gli episodi meno efficaci di un disco che ci riconsegna invece una band in ottimo stato, lontana sicuramente dal trittico “Ten/Vs/Vitalogy” – impensabile chiedere loro di essere ciò che non sono più, nemmeno noi siamo quelli di soli dieci anni fa, giusto? -, ma lontana anche dagli ultimi due scialbi e poco incisi album. Così ci troviamo esaltati a scuotere la testa sulle elettrificazioni di “Who Ever Said”, piacevolmente colpiti dal giro di basso che trascina “Quick Escape”, o la foga dell’uno-due “Never Destination/Take the Long Way” che ci riportano a certe intenzioni grungy di “No Code”. Proprio la seconda parte del disco riesce a catapultare i fan al disco “senza codice” grazie a canzoni rallentate: da “Buckle Up” alla conclusiva “River Cross” Vedder e soci prendono fiato lasciandosi alle spalle la ruvidità delle chitarre a favore di arrangiamenti ariosi, dal sapore acustico, quella fragranza sonora che, chiudendo gli occhi, è riconoscibile lontana un miglio: come finire in uno sperduto diner americano, ordinare un caffè ed una crostata di mele trovandoci dentro il sapore di casa.
Certo che se musicalmente i Pearl Jam restano sempre ancorati al carattere sonoro costruito in trentanni di carriera non si può dire lo stesso dei testi di Vedder, maturi e sempre lucidi sul presente socio-politico (Trump resta il nemico numero 1 dei suoi versi), lungimiranti verso un futuro che appare sempre più cupo (e qui copertina e titolo rispecchiano i contenuti presenti nell’album), seppur in diversi momenti si accende un barlume di speranza, e voglio soffermarmi su alcuni di questi poiché in un momento storico come quello che stiamo vivendo ce n’è un gran bisogno, abbiamo necessità di uno squarcio di luce come quello dipinto da Eddie all’inizio del video di “Dance Of Clairvoyants“: “And I won’t give up/I won’t give up/On satisfaction, satisfaction” da “Who Ever Said”; “That’s not a negative thought/I’m positive, positive, positive” da “Dance Of Clairvoyants”: “If you tire of the game/Hit the road towards the clouds/Find your groove in the sound” da “Alright”; “Share the light/Won’t hold us down” da “River Cross”.
Tirando le somme “Gigaton” si rivela come il disco che risolleva le sorti della band americana, data per spacciata, vista ormai come un pachiderma bellissimo che però dava il meglio di sé soltanto dal vivo. Dovremmo ricrederci: “Now’s the time to resurface/Take back me and you/The hammer will fall on purpose/Our time, our truth”.
(Antonio Capone)