Stefano Tamborrino è la mente (e la batteria) che si cela dietro il progetto Don Karate, una combo capace di sfornare un disco che travalica i generi, mescolando jazz, hip-hop e r’n’b. Abbiamo parlato con lui per farci raccontare come si fa a costruire un lavoro così libero eppure così “centrato”. E abbiamo scoperto che l’importante è essere felici.
Il disco che avete fatto è di una bellezza disarmante e travalica totalmente i generi, dal jazz all’hip hop, per cui ora la smetto di farti i complimenti e ti chiedo: mi descrivi tu da dove è partito tutto?
Domanda complessa che segue un gran complimento. Adesso mi ritrovo in un limbo di gratitudine e odio, da cui cercherò di emergere dignitosamente con la più onesta delle risposte che mi vengono in mente. Ce l’ho: la mia musica trae ispirazione da diverse zone del presente, come le radici di un albero che non affondano in una sola direzione. Ammetto di ammirare chi ha così tanta fede da credere in una sola fonte di luce, ma al contempo un po’ li commisero per come riescono a relegare tutto il resto nell’ombra. Ognuno poi è libero di scegliersi la o le proprie fonti, a me semplicemente piace bere e ancora di più mi piace l’idea che le mie radici abbiano conosciuto terre di diversi colori.
C’è qualcosa di musicale che senti affine al progetto Don Karate?
Ci sono indubbiamente tanti riferimenti, tanti spunti, ma con le affinità e divergenze non sono mai stato troppo ferrato. Però posso dirti che quando scrivo lo faccio quasi per gioco, e la ritengo una cosa importantissima. Giocare è la cosa più seria che l’uomo impara a dimenticare crescendo. Mi sento affine a chi pensa che la musica sia questo, un gioco religioso.
Come si fa a rendere la batteria uno strumento che non sia solo di contorno ma riesca ad essere al centro di un progetto e, anzi, a dargli sfumature coloratissime?
Vuoi la verità? Non ne ho idea, perché quando vengo coinvolto in altri progetti tendo a dare molto risalto alla batteria, mentre quando scrivo musica per Don Karate paradossalmente diventa uno-degli-strumenti, non certo il centro di tutto. Questo mettermi a margine del mio stesso progetto è un concetto che non avevo mai sintetizzato, penso sarà un tema che occuperà il resto del mio pomeriggio. Tornando a Don Karate, quel che facciamo è cercare di creare una tessitura semplice, che sia la base su cui appoggiarci. Siamo come un castello di carte: se cade non è colpa di una sola carta. Siamo come un legame dativo: no dai questa non c’entra niente, volevo fare la parte di quello che sa un sacco di cose intelligenti.
Quando ti definiscono un batterista jazz ti arrabbi? E come ti definiresti tu?
Lascio che ognuno mi chiami col nome che predilige, perché so che le categorizzazioni offrono molte più sicurezze e appigli rispetto ai concetti sfumati, meno definiti.
Io mi definirei una persona che per una serie di equivoci e vicissitudini si è ritrovata a lavorare anche in ambito jazzistico. Perché nella definizione “batterista jazz” io ci vedo principalmente il fatto che mi piace suonare la batteria, prima ancora del genere musicale. E poi “batterista jazz” lascia fuori alcune delle cose che più influenzano la mia musica: mangiare, bere, stare con gli amici, ascoltare…
Cosa vedi nel futuro di questo progetto? Sai già verso che lidi si svilupperà il sound di Don Karate?
Negli ultimi live, oltre a godere della compagnia dei miei indispensabili e fidatissimi amici Francesco Ponticelli e Pasquale Mirra, ho voluto aggiungere delle proiezioni in video mapping (curate da Paolo Pinaglia), che di volta in volta vengono plasmate a seconda della location in cui suoniamo. Questo perché voglio che il concerto di Don Karate sia uno spettacolo tout court, e in questo sì che vorrei distaccarmi dai cliché dell’esibizione jazz (palco scarno, a volte niente palco, zero fondale, due luci fisse, tonnellate di eroina…).
Riguardo al sound, posso dirti che ho sempre immaginato lo spettacolo di Don Karate come un viaggio, e tale vorrei restasse: noi suoniamo e viaggiamo, voi ascoltate e viaggiate. Poi a fine serata vediamo dove siamo tutti.
So che tu sei partito a suonare la batteria completamente da autodidatta: se dovessi dare un consiglio a qualcuno che si approccia per la prima volta allo strumento, quali sono i dettagli che fanno la differenza?
Non sono un guru, quindi l’idea di poter dispensare consigli pubblicamente mi imbarazza un po’. Però, nonostante il mio percorso di autosufficienza didattica, sono finito a insegnare presso l’università che anni fa mi negò l’accesso da studente.
Ora, questa frase ti sembrerà poco pertinente e pure parecchio spocchiosa, ma dietro questa bizzarra vicenda si cela l’unico consiglio che mi sento di esprimere nei confronti di chi si sta approcciando verso qualcosa, qualsiasi cosa: fatelo con passione e con rispetto e ne sarete sempre ripagati. Amare è l’investimento migliore che possiate fare. Anche una batteria.
(Alessio Gallorini)