Una sedia dondola sulla veranda, una placida quiete si spande tutt’attorno, limonata ghiacciata sul tavolino e un tramonto infuocato a colorare il paesaggio caldo. Questa è la prima immagine che mi è venuta in mente ascoltando il quarto album di Aaron Earl Livingston (aka Son Little).
La sua biografia (figlio di un’insegnante e di un predicatore), la sua attitudine verso la vita (“spesso mi ritrovo a constatare che ripeto sempre gli stessi errori e certe dinamiche, a lungo andare, possono diventare tossiche, sto imparando a prendere coscienza del fatto che io potrei essere parte del problema”), il suo ottimismo (l’hard disk che conteneva il materiale elaborato per il nuovo album si è fuso ma ha trasformato questo dramma in una nuova opportunità: “se non avessi perso tutte quelle canzoni, non avrei mai scritto aloha”) fanno di questo album un inno alla semplicità, quella pura, quella che aiuta a depurarsi da inutili sovrastrutture e a concentrarsi su ciò che è realmente importante nella vita.
Però il messaggio non è banalmente “guardare il lato positivo delle cose”, bensì riflettere su quello che ci accade e trasformarlo in un elemento di crescita ed evoluzione personale, quel bagaglio di esperienze che aiutano a dare risposte personali alle eterne domande “chi siamo-da dove veniamo-dove andiamo”.
Questa predisposizione d’animo è quella ha portato Son Little a scrivere e registrare questo lavoro in 8 giorni (!!!), suonando quasi tutti gli strumenti (!!!!!) ed affidandosi (per la prima volta nella sua carriera) ad un produttore esterno (Renaud Letang, meglio noto per la sua collaborazione con Feist).
Brani che scorrono uno dopo l’altro vanno a comporre un intreccio sonoro che deve molto al passato ma sembra essere senza tempo, collocato in un’altra dimensione; la matrice è quella R&B, con accenti ora più soul (“bbbaby”, “soul suffer”, “3rd eye weeping”), ora più blues – nel senso più tradizionale del termine (“about her again”, “that’s the way”) ma non mancano pezzi più scoppiettanti e gioiosamente rock (“hey rose”, “belladonna”) – le minuscole sono una scelta dell’artista, NdA.
Insomma, “aloha” è un disco curato nella sua essenzialità, intenso all’ascolto, dove nessun pezzo spicca sull’altro ma tutti sono perfettamente assemblati, in una sequenza che rende un’atmosfera di magica serenità. Un inno al vivere con lentezza: non sarà la novità dell’anno ma è una confortante via di fuga dalla frenesia del mondo moderno.
(Patrizia Lazzari)