A ormai quattro anni dall’ultimo lavoro, “Nessuna scala da salire”, che aveva raccolto pareri non sempre unanimi, Bugo ritorna con qualche capello brizzolato e con un disco nuovo. Il disco porta il suo nome e si compone di nove tracce. Di una di queste nove eviterò deliberatamente di parlare, per quanto il casino combinato da quei due stia garantendo ad entrambi copertura mediatica e a Bugo un successo televisivo e radiofonico che forse mai aveva trovato in vent’anni di carriera.
Si inizia con “Quando impazzirò”, brano che riprende delle sonorità indie tipiche di un decennio fa, quando si riusciva ad essere scanzonati senza essere paraculi. Per di più il ponte ricalca tantissimo a livello di armonizzazione qualche lavoro dei Baustelle e rende il brano potente ed attrattivo. Così come la successiva “Come mi pare”, continua il discorso aperto da quel basso aggressivo del primo brano. Un brano che prima mi dà ragione (non conta cosa dici/ma che volume hai è effettivamente una cosa che ripeto spesso) e poi mi riporta alla mente “O’ animale” di Tony Tammaro, quindi non può non prendere simpatia ad ogni ascolto. E subito dopo “Al paese” apre uno spaccato sulla provincia senza l’eccessiva melodrammaticità della nuova scuola itpop con un ritornello curato che porca miseria quasi non lo riconosco Bugo. È vero che è un disco scritto a tre, con i fidi Andrea Bonomo e Simone Bertolotti, ma si ha la netta sensazione che Bugo ci abbia messo l’interpretazione più che la scrittura in sé, come nella successiva “Che ci vuole”, brano profetico (ci vuole poco a diventare famosi/basta un vaffanculo in tv) costruito attorno ad un gioco di parole. Arriva poi “Fuori dal mondo” che col senno di poi se avesse portato questa a Sanremo, col suo arrangiamento a fiati ed archi spiegati e il suo ritornello trascinato chissà come sarebbe stata la storia. Notevole anche “Mi manca”, il brano che Bugo inserisce nell’album e che vede partecipare il compagno di casa discografica Ermal Meta, il cui spirito a dire il vero aleggia molto sulla scrittura del disco, che magari ad un primo ascolto può sfuggire ma tranquilli che verso settembre-ottobre si può ancora riciclare come singolo. In “Un alieno” e nella successiva “Stupido, eh?” diventa difficile stabilire se stia cantando Bugo, Battisti o Giovanni Donzelli degli Audio 2 ma soprattutto l’inciso della prima ci fa capire che siamo stilisticamente lontani dai ritornelli del riccioluto romano. Ad ogni modo parliamo, citando “Un alieno”, dell’ennesimo brano di questo album che da subito entra in mente, inoltre il suo incedere contribuisce a sciogliere definitivamente le riserve nei confronti di un album costruito in maniera ineccepibile. Le sonorità sono assolutamente lontane dal lofi quasi stoner dei primi lavori, ma altrettanto all’apogeo rispetto a lavori più recenti come “Nel giro giusto” o “Cosa ne pensi Sergio”, quasi come se il fiore-Bugo, alla soglia dei cinquant’anni di vita e vent’anni di carriera sia riuscito a riordinare le idee, scrollarsi di dosso l’etichetta di “fantautore” e fiorire tirando fuori un disco come gli pare, per dirla come lo dice lui.
L’impressione è quella che si ha ascoltando i grandi dischi del passato. Uno li mette su, ascolta e pensa “Beh oh, ci credo che è diventato un classico, è un disco pieno di canzoni fortissime”. E questo è “Cristian Bugatti”, un disco pieno di potenziali singoli, che corre il rischio di restare famoso solo per la sua uscita (non l’uscita del disco, eheheh) ma cercate di non sprecarlo, il suo tempo è ora.
(Mario Mucedola)