Sono passati esattamente tre anni da “A casa tutto bene”, l’ultimo disco di Brunori SAS che ha lanciato il cantautore calabrese nel “giro giusto” della musica italiana. Oggi esce il nuovo lavoro Cip, e in molti si chiedevano se sarebbe stato in grado di replicare i fasti del lavoro precedente. A occhio e croce si, ce l’ha fatta.
Per un momento ci si è lasciati abbindolare dal fumo che “Al di là dell’amore” ci ha gettato negli occhi, in pochi si aspettavano un Brunori che virasse su lidi più elettronici e per pensare a ‘sta cazzata si è perso di vista il senso del brano, una instant song con ogni probabilità scritta quando lasciavamo la gente a cuocere in mezzo al mare che chiede pietà, soprattutto per noi. E in questo brano, nell’apripista, si trova l’essenza del nuovo Brunori SAS, ovvero il riconsiderare, in una sorta di Gestalt calabra (parole dell’autore), il rapporto fra la vita degli uomini, elemento centrale e l’universo che ci ospita, elemento periferico.
L’universo fa capolino in diversi brani, a partire dalla opening track, “Il Mondo si divide”, una filastrocca che fa del suo punto di forza la semplicità, semplice come il giro di drum machine iniziale, elementare come sembra “Bello appare il Mondo”, un sonetto gucciniano, un brano bucolico che sembra quasi fuori dalle corde – vocali – di Dario ma che invece è uno dei pezzi più riusciti del disco, anche grazie a quella digressione su “la tua storia personale” che è già pronta per essere stampata su t-shirt e divenire una delle frasi-cardine della poetica del commercialista cosentino. Terza gamba del tripode mondano è “Fuori dal mondo”, un brano fatto per essere suonato dal vivo e che traccia un profilo psicosociologico dell’ascoltatore di Brunori, uno dei testi più vicini al Dario che conosciamo, una canzone costruita magistralmente in bilico tra il Jovanotti del Collettivo Soleluna e “In fondo al mar” de “La Sirenetta”.
La forza del disco, tuttavia, è nelle prime tracce, partendo da “Capita così”, in cui Brunori costruisce un bel ritornello che potrebbe essere quello decisivo per la sua carriera se sta canzone dovesse uscire come singolo. Emerge l’urgenza di diventare popolare, a costo di uscire con un brano che ricalca alcune atmosfere del pop italiano di qualche anno fa. Così come emerge l’urgenza di dare un esempio di poetica della semplicità, contesto nel quale si muovono “Mio fratello Alessandro”, che è una sceneggiatura più che un brano semplice oltre ad essere uno di quei brani che già dai primi ascolti è scolpito in testa ma anche altri brani come “La canzone che hai scritto tu” che sembra ispirata, almeno nelle intenzioni al principe De Gregori così come il secondo singolone, “Per due che come noi” che già dal video si avvicina a quelle atmosfere che sbandierano il modo di scrivere ed intendere la musica di Brunori: se la trap è un mondo di adolescenti col mondo ancora di conquistare, questa musica e questo album è per “noi” adulti che stiamo lottando per consolidare quelle certezze costruite nel tempo.
Parlavamo prima di canzoni pensate per essere suonate dal vivo, quindi non possiamo non citare “Benedetto sei tu”, una preghiera laica che ricorda molto il modo di scrivere e comporre di Francesco Bianconi per un brano incentrato sul concetto mai abbastanza ripetuto del “restare umani”. Nel complesso come “preghiera” funziona e non escluderei che così come accadde a “Padre Nostro” de Il Teatro Degli Orrori non ci si possa imbattere in un Brunori incensato dalla stampa cattolica, come Famiglia Cristiana.
Altro episodio fondamentale di questo album è “Quelli che arriveranno”, scritta con Dimartino ma palesemente suggerita da Dalla. Questo brano rinnova la tradizione italica di piazzare come ultima canzone un pezzo enorme. Achille per poco sembra un cane che sente qualcosa, li guarda, abbaia e se ne va, per poi diventare una Futura postmoderna in un album di bellezza disarmante. Un disco fatto per piacere a tutti, pubblico e critica, mamme e figli, che cerca di colmare e chiudere il gap generazionale musicale imbastendo un album che, inserendosi in un filone cantautorale che finalmente riesce a girare a testa alta senza piangersi addosso, a mio parere proietta l’indie nel mainstream in maniera assai più funzionale di quanto non abbiano fin qui fatto Calcutta o Tommaso Paradiso, ergendo Dario Brunori a nuovo totem musicale e garantendogli un posto di rilievo nella musica italiana degli anni Venti.
(Mario Mucedola)
Diciamolo subito, per chi scrive Dario Brunori è il miglior cantautore della sua generazione, quello che più degli altri sa interpretare i sentimenti e le angosce della maggioranza delle persone ed entrarci in contatto, con quello spirito da quarantenne che “ci sono certi giorni in cui vorrei alzare anch’io la Coppa dei Campioni e ci sono certi giorni in cui mi sento veramente il primo dei coglioni” in cui chiunque si può facilmente rivedere. È un po’ ruffiano, direte voi? È il pop, bellezza: più si riesce a mettere in canzone i sentimenti della maggioranza e più è probabile che quella canzone abbia successo.
Brunori è bravissimo in questo e forse questo è anche il suo più grande difetto: essere intrappolato nella figura di questo quarantenne che vive perennemente sul filo che separa i grandi trionfi dalle grandi cadute, in un eterno presente in cui il tempo scorre (e lo si percepisce) ma le cose in fondo non cambiano mai. Ed è proprio questo che gli rimprovero, il fatto che a Brunori sia mancato lo slancio per smarcarsi da questa sua figura, che già era ben visibile in “Vol.1”, che resta un disco capolavoro, e che si è poi via via ripetuta nei capitoli successivi, affinandosi, questo è vero, riuscendo ad arrivare a sempre più persone, altrettanto vero, ma allo stesso incapace di rinnovarsi (solo in parte dal punto di vista sonoro, ma senza poi smarcarsi troppo dai riferimenti Dalliani, vedi “La canzone che hai scritto tu”, piuttosto che dai momenti alla Venditti tipo “Fuori dal mondo”).
A Brunori manca il colpo di genio alla Dalla di “Disperato, Erotico, Stomp” o il verso iconico alla De Gregori di “Rimmel” e rischia di accartocciarsi troppo sulla sua figura e sul racconto di una generazione che alla fine vive il mondo come un’eterna ripetizione di cliché dispiegati uno dopo l’altro.
Personalmente credo in Dario Brunori e nelle sue qualità di autore e non voglio pensare che si accontenti di diventare l’esponente di un cantautorato pop adorato dalle masse alla Tommaso Paradiso.
Per quanto questo “Cip!” sia un ottimo disco, che non può non piacere, non può non andare in radio, non può non far fare sold out ai concerti e il sing along su ogni pezzo, caro Dario, voglio di più, perché se c’è una speranza per la canzone italiana, che non diventi del tutto banale, beh quella può senz’altro essere Dario Brunori.
Quello capace di scrivere un pezzo come “La verità”, in cui però non deve specchiarsi troppo…
“La verità/È che non vuoi cambiare/Che non sai rinunciare a quelle quattro, cinque cose/A cui non credi neanche più”
(Alessio Gallorini)