Con questo nome, Virginiana Miller, possono essere qualsiasi cosa: una delle migliori band di musica d’autore italiana, una pop band, una folk rock band del Mid-west americano. E loro, giustamente, sono stati e sono tutte queste cose insieme, come hanno efficacemente dimostrato al Glue Alternative Club di Firenze in questo venerdì pre-pasquale: era la seconda data live di presentazione di The Unreal McCoy, il nuovo album interamente in inglese e, è indubbio, il pubblico si è trovato spiazzato da ciò a cui è andato ad assistere, uno spettacolo di alta qualità (importante il lavoro fatto sugli arrangiamenti) diviso perfettamente in due parti, la prima totalmente in inglese con i nuovi brani, la seconda che ha rivisto Simone Lenzi e compagni ripercorrere i loro vecchi successi.
Da “The Unreal McCoy”, title track del disco, passando per “Lovesong”, “Soldiers on leave” e “Motorhomes of America”, sembrava davvero di assistere allo spettacolo di una rock band venuta da oltreoceano, capitanata da questo frontman di classe, a metà tra lo scrittore introspettivo (con tanto di poltrona sul palco) e il cantautore dalla voce calda e avvolgente, capace di personalizzare anche un classico springsteeniano come “The ghost of Tom Joad”. Al folto pubblico presente manca ancora quel quid in più del sing-along sui testi in inglese, ma a tutto c’è rimedio e le dinamiche dei nuovi brani già iniziano ad entrare in testa, mentre invece è assolutamente sfrenata la gioia di cantare i vecchi successi, che dopo qualche anno tutti avevano voglia di riascoltare: da “Dispetto” ad “Acque sicure”, passando per “L’estate è finita” e un’immancabile e sempre commovente “Anni di piombo”, i Virginiana hanno confermato di avere con i loro fan un rapporto speciale: poche band riescono a creare un’empatia così forte con chi le ascolta, un legame viscerale che va anche al di là della bellezza dei brani, sempre di qualità.
Assistere a un loro concerto ti dà la sensazione di essere in famiglia, di star vedendo qualcosa che è speciale e “solo per te” in quel preciso momento.
È bello vedere che questa magia, nonostante il passare inevitabile del tempo, non si perde. Abbiamo (ri)scoperto una nuova, vecchia, rock band, precisamente una american labronic rock band.
“Non esiste l’America. È un nome che si dà a un’idea astratta.”
(Henry Miller)
“Ma l’America è lontana, dall’altra parte della luna” (Lucio Dalla)
È da queste due citazioni che parte la mia chiacchierata con Simone Lenzi, voce e penna dei Virginiana Miller, tornati a pubblicare un disco di inediti dopo ben sei anni dall’acclamatissimo “Venga il Regno”. Il nuovo album racconta gli Stati Uniti immaginati dalla costa livornese e, per la prima volta nella carriera della band, è interamente in inglese.
Voglio partire da queste due citazioni, che secondo me calzano perfettamente sul vostro lavoro, per chiederti di “The Unreal McCoy”, come è nata la voglia di parlare degli Stati Uniti?
Queste due citazioni calzano perfettamente sul disco, nel senso che comunque anche nell’idea degli americani l’America stessa è una frontiera, qualcosa verso cui ci si spinge ma che non si raggiunge mai del tutto: questo senso del limite verso cui spingersi è anche il senso con cui nasce il disco. Tutto parte da “Venga il Regno” e dalla consapevolezza di aver raggiunto con quel lavoro il nostro apice in italiano, con i nostri mezzi espressivi. Ci è quindi venuta voglia di fare qualcosa di completamente diverso e di immaginarci di raccontare completamente un mondo altro.
In “Vicolo Cannery” Steinbeck piega il ritmo del racconto alle idiosincrasie dei suoi stessi personaggi, così in questo disco tu sembri piegare i testi verso più il racconto dei personaggi che di una storia in sè. Era questo che volevi ottenere?
Assolutamente sì, ci sono tanti ritratti in “The Unreal McCoy”, di personaggi immaginari come sono immaginari i personaggi della letteratura: non per questo però per chi ha a che fare con loro sono meno reali. Nelle canzoni si racconta l’America dal punto di vista di personaggi molto diversi tra loro ma che hanno in comune una marginalità, o comunque il fatto di non essere dei vincenti.
La figura di dio è estremamente presente in questo lavoro, come un po’ in tutta l’epica americana, e la conclusiva “Albuquerque” è quasi un non luogo in cui c’è una resa dei conti finale, uno scenario post-atomico. Prima di tutto ti chiedo se pensi che ci sia davvero un dio dotato di protesi che “arrangi un piano” e poi da dove è arrivata l’ispirazione per quel brano.
La presenza di Dio attraversa tutto il racconto, ma è inevitabile parlando di America, dove il rapporto con Dio è un rapporto personale, poco mediato.
Ti racconto un aneddoto: la prima volta che sono andato in America, scendendo dall’aereo a Newark, mi ha colpito il cielo: mentre il cielo europeo è una volta, una cupola se vuoi, il cielo americano è altissimo e piatto ed è sotto questo cielo che si sperimenta una solitudine tipicamente americana, indescrivibile: è la solitudine dell’uomo di fronte a una divinità arrabbiata, una divinità veterotestamentaria.
Visti anche i fatti di Notre Dame ci troviamo in mezzo alla notte dell’occidente, voi scegliete di parlare proprio del Paese che è “il centro dell’Impero occidentale”, e che poi trascina nel baratro anche noi “delle province”. Secondo te ci arriviamo a rivedere l’alba e quanto manca?
Questa è una domanda troppo difficile forse per le mie forze, ma sicuramente ti dico che per il momento di crisi profondissima che sta attraversando l’occidente era inevitabile parlare del centro dell’impero, perché poi da lì per riflesso si parla anche della provincia da cui proveniamo. L’alternativa, data l’urgenza del momento, sarebbe stata scrivere canzoni su Di Maio e Salvini, ma non voglio sprecare neanche una parola su di loro, per cui tanto vale parlare dell’America.
Quanta differenza ci trovi tra la provincia italiana attuale e quella americana, al di là dei grandi numeri?
Alla fine non c’è differenza, cambia completamente lo scenario ma il senso di disgregazione attraversa tutto l’occidente.
E ti piacerebbe un’Italia improntata su uno slogan tipo “Make Italy great again”?
Assolutamente no. Credo che quando uno vuole far grande il proprio Paese non ha bisogno di slogan, ma basta che faccia al meglio il proprio lavoro, senza tanti fronzoli da nazionalista.
Cosa ha tenuto insieme i Virginiana Miller in questi 6 anni?
L’amicizia, è semplice. Abbiamo fatto un disco per divertirci e questa è una motivazione più che sufficiente per fare qualcosa di buono. Poi a livello personale devo dire che mantenere un’amicizia con altre persone per 30 anni, è una grande fortuna.
Quale è stata la differenza che hai trovato tra lo scrivere pezzi in italiano e in inglese?
In inglese è tutto più semplice, bisogna sbattezzarsi molto meno, è la lingua del rock, è un po’ come cantare la messa in latino: è il suo. Le parole si piegano da sole a certi ritmi.
Chiudo chiedendoti, dato che l’America è il paese dei sogni e delle opportunità, come lo raffigura, o se lo ha realizzato, il sogno americano Simone Lenzi?
Il sogno americano penso di averlo realizzato o quantomeno lo ho capito: una volta sono andato in un college di nome Deep Springs, che si trova in mezzo al deserto tra il Nevada e la California, un posto in cui il negozio più vicino è a tre ore e mezzo di macchina; lì, tra quei cumuli di sterpaglie che volano e i teschi delle mucche, perché loro facevano anche i mandriani al mattino, mentre il pomeriggio si occupavano di Derrida (filosofo e saggista francese, ndr), ho sentito davvero cos’era l’America. Questi erano ragazzi che facevano due anni di college sperduti nel deserto e poi magari andavano ad Harvard per diventare parte della classe dirigente americana: ecco, lì ho capito cosa vuol dire essere americani e sentire di avere sempre un limite personale da superare, anche solo per le distanze con cui dover combattere.
E il tuo “sogno americano” personale, invece?
Andare a pesca nel Maine, indubbiamente.
(Alessio Gallorini)