Vi svelo un segreto: diversi mesi fa, in un paesino sperduto della campagna senese, in macchina con Simone Lenzi e Antonio Bardi (voce e chitarra dei Virginiana Miller) ho avuto modo di ascoltare una buona metà dei brani che sono entrati a far parte di The Unreal McCoy, nuovo album della band livornese. E anche io, come faranno forse tutti quelli che ascolteranno per la prima volta il disco, sono rimasto spiazzato dalla scelta dell’inglese, soprattutto perché la penna del Lenzi è forse (assieme a quella di Emidio Clementi), la più acuta nel panorama cantautoriale italiano, capace di regalare testi come “Anni di Piombo” o “Lettera di San Paolo agli operai”.
Poi però, ho capito. E ho capito soprattutto che per fare l’esegesi di “The Unreal McCoy” non si deve allontanarsi dal cantautorato italiano, ma anzi prenderne uno dei suoi capisaldi, quel Lucio Dalla che, in “Anna e Marco” dice: “Ma l’America è lontana, dall’altra parte della luna”. In questo verso sta (quasi) tutto “The Unreal McCoy”: i Virginiana descrivono un’America lontana, irraggiungibile, “unreal” nel senso di immaginata e quello che ne viene fuori è una “Pastorale Virginiana”, per parafrasare il titolo di un romanzo di Philip Roth, che si divertiva a disegnare una provincia americana perfetta e oscura allo stesso tempo, viva nelle sue contraddizioni, solennemente democratica e profondamente repubblicana, in cui “God is good, the sky is blue” e il secondo emendamento è quasi legge morale (e Lenzi lo rende “the second amendment to a love song”, innalzandolo a qualcosa di connaturato alla natura umana come l’amore e scrivendo una cosa di una semplicità e acutezza rare, in “Lovesong”, primo singolo del disco.) La scelta dell’inglese diventava inevitabile per descrivere un certo tipo di realtà, un secolo in cui l’inglese è diventato ed è lingua dominante, a cui si è spesso costretti nella sua scolastica banalità. “Dio, Patria, Ricchezza” è un bel saggio di Massimo Gaggi che potrebbe essere usato da compendio (insieme al suddetto “Pastorale Americana”) per capire questo disco dei Virginiana Miller che ritrae un Paese che sta in perfetto equilibrio tra Dio (e i riferimenti religiosi sono presenti in quasi ogni brano) e il Progresso, un Progresso destinato a portarci, forse, alla fine, come ipotizza (profetizza?) Lenzi in “Albuquerque” descrivendo uno scenario post-atomico in cui restano solo i topi. Insomma i Virginiana Miller stendono l’America, la Statua della Libertà, su un ipotetico lettino da psicanalista e le chiedono come va, come è andato l’ultimo secolo e cosa succederà d’ora in poi. Lo fanno a colpi di chitarre quasi floydiane (“The unreal McCoy”) e momenti folk alla Neil Young versione “Harvest” (“Motorhomes of America”), senza disdegnare inserti elettronici (David Byrne sarebbe fiero di loro per “Old baller”).Quando si arriva alla fine di tutto, in una desolata “Albuquerque” che somiglia a un non luogo a tutti estraneo ed a tutti familiare allo stesso tempo, molti si chiederanno se l’America dei Virginiana sia troppo stereotipata, riuscendo a cogliere solo il significato superficiale di “The Unreal McCoy”.
La domanda giusta, se posso darvi un suggerimento, è: quanta America c’è in ognuno di noi e nel nostro Paese, da questa parte dell’oceano (e della luna)? Ci vediamo ad Albuquerque per la risposta.
(Alessio Gallorini)