Ci sono autori che, al primo verso, sanno subito trasmetterti significati e sensazioni uniche, mai banali e spesso personali: negli ultimi 20 anni, uno di questi autori è senz’altro Umberto Maria Giardini, prima col moniker Moltheni e poi a proprio nome. Arrivato al quarto disco della sua seconda parte di carriera a nome UMG, il cantautore marchigiano sforna un lavoro forte, diretto, senza tanti compromessi, che si sposta dai toni cupi e lirici di un rock di matrice anni ’90 fino ad una psichedelia che ha radici ben più lontane nel tempo.
Il tutto fatto per esaltare i versi, che sono qualcosa di penetrante, vigoroso, vitale.
Basta ascoltare “Luce” per perdersi nel cosmo di Umberto Maria Giardini e ritrovarsi immersi nella bellezza.
Con “I miei panni sporchi” si viene travolti dalle chitarre, martellanti, sinistre.
È però l’iniziale “La tua conchiglia” che rappresenta la cifra più completa di questo lavoro: un brano che da rarefatto, giocato su un arpeggio chitarristico, si fa poi via via più metallico, potente, orientato verso quella psichedelia che sarà caratteristica dell’intero lavoro.
I versi di Umberto Maria Giardini si stagliano altissimi e lo confermano come uno di quegli autori imprescindibili degli ultimi anni, capace di sfoderare immagini fortissime come: “Meglio leggere meglio chiedere ai vandali/la fine arriverà firmata instagram/ mentre dormiamo/ creature con le corna/ aumentano tra le mie palle/ pronuncia il mio nome e poi confrontalo col tuo quale ti piace di più / quale nuovo clima mi regali?” (“Pronuncia il mio nome”).
Siamo di fronte all’ennesima prova di un fuoriclasse, uno che non sta dietro alle mode, che non rincorre nessuno, che è capace di creare. Un creativo a tutto tondo, questo è Umberto Maria Giardini. E per nostra fortuna, non si è ancora stancato di raccontare ciò che gli passa per la testa.
(Alessio Gallorini)