Chissà se il titolo del prossimo disco degli Snow Ghosts sia arrivato dopo essere riusciti ad includere al suo interno i suoni provenienti da un antico strumento celtico rinvenuto durante gli scavi in una palude a Daskford, in Scozia, il monile in questione si chiama Carnyx ed è una specie di antichissima tromba con una forma zoomorfa nella parte di sfiato (di solito una creatura mostruosa dalle fattezze di rettile o cinghiale) e sembra che venisse suonata in occasione di battaglie, per incitare i guerrieri, o durante misteriosi rituali.
Il trio inglese composto da Hannah Cartwright, Ross Tones e Oliver Knowles annuncia dunque l’arrivo del terzo disco in studio intitolato A Quiet Ritual che verrà pubblicato il prossimo 3 Maggio via Houndstooth. Registrato nell’arco di due anni in un castello l’album raccoglie al suo interno un sound che unisce antichi strumenti, come quello presentato qualche riga più su, e strumentazione moderna con cui costruiscono paesaggi che vanno dal post-rock all’industrial più accessibile ma con molti zone d’ombra.
E il nuovo album non fa eccezione essendo basato sul tema della morte o, come loro stessi presentano, scritto “per elaborare lo shock e il dolore del lutto e le sue conseguenze, oltre a ricorrere alla storia e alle altre culture per le loro metafore e strategie di coping” (per quest’ultimo termine arriva in soccorso Wikipedia, si legge “indica l’insieme dei meccanismi psicologici adattativi messi in atto da un individuo per fronteggiare problemi personali ed interpersonali, allo scopo di gestire, ridurre o tollerare lo stress ed il conflitto”). Poi aggiungono altri dettagli sulle tematiche presenti: “delinea le fasi del processo e di come ogni individuo si occupi di esso in modo unico, ma soprattutto come gestiscono il proprio cuore e di come gli altri cuori fragili inevitabilmente si diffondono intorno a loro. lo shock iniziale del dolore, l’effetto che ha sui propri cari e la prematura distruzione dei sogni.”
Il primo singolo estratto non poteva che essere quello con l’acronimo usato per salutare un’ultima volta i cari defunti, “RIP”, con la sua mistura di elettronica irrequieta e l’innesto del Carnyx – suonato da John Kenny, uno dei pochi in giro a sapere dove mettere le mani sullo strumento – che dona un maggiore senso di tragedia e un’aria drammatica al pezzo, dal primo all’ultimo secondo. Il testo invece ruota attorno a poche frasi cantate come un funereo mantra da Anna (“You were there to rip apart/It always ends without a start/You were there to rip apart”). Lo ascolti qua sotto.
Aggiornamento 10/04/19: “Heavy Heart” è in definitiva una canzone d’amore, che affronta il modo in cui il trauma può colpire chi ti è più vicino e in che modo l’amore può diventare il più bello dei fardelli.” Il trio rende pubblico il secondo estratto dal disco, “Heavy Heart” appunto, in cui la voce incantatrice di Hannah si insinua tre le pieghe melodiche che via via, in crescendo, si deformano in spazi dove i synth si distorcono e gli archi creano per qualche secondo un clima funesto.
Aggiornamento 26/04/19: Il terzo estratto scelto è “Ribcage” che parte con synth foschi ed un accenno di archi a rendere il clima teso, uno squarcio di luce arriva quando si inserisce il cantato di Hannah. Percussioni tribali e momenti più rarefatti confezionano un brano che assomiglia al giusto accompagnamento di un rituale pagano in cui “cassa toracica” e cuore sono gli elementi fondamentali per la riuscita della cerimonia (“Wrap yourself inside my ribcage/Shelter from the tempests and rage/And use my heart, and use my heart”).
Aggiornamento 03/05/19: Dopo “un piccolo mormorio” e “un demolitore” arriva “un tranquillo rituale” a chiudere la trilogia “dell’articolo indeterminativo” attraverso i toni più cupi che la band inglese abbia mai prodotto ad oggi, unici bagliori di luce arrivano quando la voce angelica, ma sovente funesta, di Hannah prende il sopravvento sulle trame crepuscolari di Ross e Oliver. Non mancano momenti più delicati dove la cappa darkwave allenta la presa a favore di soluzioni più distensive come nel caso di “Spinners”, “Black Widow” o la conclusiva “Silence”, una dolce ma poco rassicurante nenia che mette a tacere il frastuono dei minuti precedenti (“I wear this quiet cloak of grief that keeps me in the fight Scared of which is darker, the daylight or the night“). Tutto il resto è un architettura sonora che si staglia tra paesaggi futuribili e distopici e antiche cerimonie invocanti divinità dormienti o rituali per elaborare e dissolvere al di fuori del proprio corpo dolorosi lutti che ancora infestano la mente.