City Final – Anecdotes (2018 – Five to Midnight)
Ci sono voluti 7 anni ai City Final per dare un seguito al loro disco d’esordio “How we danced“, ce ne sono voluti tre per registrare Anecdotes, portato avanti tra Roma e Firenze, ma concepito tra Berlino e Budapest: questo dà l’idea degli stravolgimenti, dei viaggi e degli sconvolgimenti che hanno colpito la band, capace però di tornare con un lavoro genuino, cesellato, che lascia pensare agli Smiths (fin dall’iniziale “Buda Hills”), senza trascurare dinamiche più western (“Sea of love”) o momenti più prettamente pop (“No love in vain”), sfumandoli poi nelle sonorità alla Belle & Sebastian di “Learn again”. Dieci pezzi, un disco nettamente diviso in due metà dalla strumentale “Weeds”, un disco che ammicca all’Inghilterra, a quel tipo di pop e che sa regalare anche momenti dilatati e onirici (“The Boatman”), un lavoro di cui si nota la cura del dettaglio. Manca forse il vero guizzo che faccia gridare al capolavoro, quel momento di originalità che avrebbe sorpreso l’ascoltatore, ma si tratta comunque di un lavoro di spessore, in cui si nota tutta la bravura e la dedizione di chi lo ha costruito. Bentornati.
(Alessio Gallorini)
Mayflower Madame – Premonition (2018 – Night Cult Records)
Cosa sono le “Premonizioni” se non, per chi è avverso all’esoterismo, le proiezioni di ciò che vorremmo far accadere e grazie ad una gran forza di volontà riuscire a perseguire? Partono da qui i norvegesi Mayflower Madame – e già il moniker farebbe pensare ad una nota spiritista se non fosse che in realtà si tratta di una maitresse americana – dalle “Premonitions” di questo esordio crogiolandosi in un suono denso e cupo come una notte senza sogni di Nick Cave, fluttuando in un spazio onirico dove ipnotiche soluzioni kraut rock si dissolvono in materia shoegaze liquida. Quattro sono gli inediti contenuti nell’Ep di debutto che non aggiunge nulla ai generi citati ma lascia margini di miglioramento per il futuro che non può essere luminoso (in senso letterale) in quanto qui di luce ce n’è veramente poca, anche se non di rado si avverte un calore di fondo dato dallo struggimento di queste “canzoni d’amore apocalittiche”.
(Antonio Capone)
The Flesh – Dweller (2018 – Autoprodotto)
Arriva dall’Olanda un progetto esordiente con l’EP Dweller dalle caratteristiche interessanti. The Flesh, questo il nome della band, suonano un metal contemporaneo carico di hardcore, grind, sludge e death scandinavo (alla Entombed per capirci). L’EP, che ha la consistenza di un vero e proprio album d’esordio, è composto da sette pezzi. La sensazione è di trovarsi di fronte ad un gruppo già rodato e con le idee ben chiare. Manca, infatti, quell’innocenza primordiale e quella sana vena citazionista propria di molti esordi underground. Qui siamo a livello di dischi di band ben più mature. Certo è che non ci si può aspettare chissà che soluzioni da parte di un progetto chiaramente improntato a spaccare teste a suon di distorsioni. Oltre al metal, come già anticipato, alcune soluzioni compositive richiamano all’hardcore americano più bluesaggiante, vedi i vari Unsane e compagnia bella, mentre le linee vocali non tradiscono minimamente richiami al death metal. Di fatto “Dweller” è un lavoro che non ha nulla da invidiare a tanti altri dischi simili, anzi, merita ancor più attenzione, considerando che si tratta (solo) di un esordio.
(Aaron Giazzon)
Delmoro – Il Primo Viaggio (2018 – Autoprodotto)
Esordire con un concept album. Questo è quello che fa Mattia Del Moro, in arte semplicemente Delmoro, con Il primo viaggio, un disco che racconta la storia, ca va sans dire, di un viaggio, quello di una famiglia composta da padre, madre e due figli trentenni e che è, appunto, il primo viaggio di famiglia da quando i due ragazzi hanno raggiunto l’età adulta. Grande concentrazione va dunque riservata ai testi di questo lavoro, che sono spesso un dialogo tra i personaggi e che servono a Delmoro per sviluppare e indagare macrotemi a lui cari, come l’amore o, appunto, la crescita: spesso i finali sono aperti o i testi non così ben definiti e viene richiesto a chi ascolta uno sforzo di immaginazione e di comprensione per arrivare a farlo riflettere su come lui risolverebbe certe situazioni, come svilupperebbe certi rapporti. Insomma un disco molto ambizioso, in cui la fanno da padrone le sonorità pop e la chitarra, senza disdegnare l’impiego dei synth: da Sebastien Tellier a Battiato, agli Amor Fou, a Colapesce (non a caso disco mixato da Mario Conte, che con Colapesce ha lavorato) i riferimenti sono quelli e questa “serie TV in musica” (le canzoni sono episodi non in ordine cronologico ma situazionistici) è assolutamente un esordio accattivante.
(Alessio Gallorini)