Decimo album per il trio pisano degli Zen Circus, trasformato adesso in quartetto con l’entrata ufficiale nella band del Maestro Francesco Pellegrini: dopo un paio di dischi non esaltanti, che avevano semplicemente confermato le doti di Appino e compagni e la loro cifra stilistica, Il fuoco in una stanza alza notevolmente il tiro e si presenta come il disco che eleva gli Zen Circus nell’Olimpo delle band italiane di un certo tipo di circuito.
In questo nuovo lavoro viene fuori la vena cantautorale di Appino, che crea un microcosmo di testi estremamente personali, come forse mai prima d’ora aveva fatto con gli Zen Circus (qui ci si avvicina molto all’Appino de “Il testamento“): padri, madri, amori si intrecciano nella provincia, dando vita a un disco che parla al cuore, con il cuore e lasciando fuori la vena politica degli Zen, per una volta. Il fuoco che evoca la band toscana è un fuoco salvifico o un fuoco distruttivo? La stanza è un rifugio o un qualcosa da dare, appunto, alle fiamme? Questo è il conflitto che fa da collegamento tra tutti i brani del disco: una continua ambivalenza tra il bisogno di essere compresi, di rifugiarsi, e la rabbia, la voglia di ribellarsi e fuggire, che è poi tutto ciò che quotidianamente capita in un percorso di crescita e, più in generale, nei rapporti familiari.
Gli Zen Circus si scoprono adulti, malinconici e vulnerabili e fanno il ritratto di una generazione di 30/40enni che è esattamente come loro, di chi si è trovato adulto senza appigli, tra conflitti con i genitori e inadeguatezza congenita (“Io bella non ci voglio sembrare, io mi ci voglio sentire” recita “La Stagione”), mentre intorno gli amici si sposano e i sognatori restano perennemente fregati (“Il mondo come lo vorrei”), mentre intorno la vita scorre in una quotidianità fin troppo nitida e ripetitiva e non ci resta che fabbricarci da soli le proprie sicurezze, dimenticandosi troppo spesso di chi c’è sempre stato e ci sarà sempre (“Questa non è una canzone”).
Insomma gli Zen sfoderano uno dei dischi italiani dell’anno, mostrandoci i loro punti deboli, le loro fragilità, che poi sono quelle di tutti noi. E loro ce le cantano, sforbiciando le loro chitarre (comunque presenti in pezzi come “Quello che funziona” o “Catene”) in nome di uno spirito più pop, che a tratti ammicca a certi anni ’80 tra i Pulp e i Cure (“Rosso o nero”, “Panico”) e dando libero sfogo a quello straordinario cantautore che è Andrea Appino, sicuramente una delle migliori penne della sua generazione.
Gli Zen cambiano le carte in tavola e vincono la partita, dimostrandosi una band finalmente giunta, dopo tante attese, al suo apice. Bentornati.
(Alessio Gallorini)
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