Ad ormai sei anni da “Love This Giant”, il disco del 2012 realizzato con St.Vincent, torna sugli scaffali David Byrne. L’artista americano, torna infatti quest’anno con American Utopia. Inutile dire che c’era una certa attesa per questo nuovo capitolo della carriera del cantante dei Talking Heads, ma il nostro torna con dieci brani a dir poco perfetti, otto dei quali scritti a quattro mani non con Tommaso Paradiso bensì con Brian Eno, la cui impronta si farà sentire in maniera pesante.
Si parte dall’ipnotica “I dance like This”, un brano d’apertura che ben rappresenta quello che sentiremo, atmosfere care a Bowie mischiate ad incursioni elettroniche “quadrate”, come si sentiva nei dischi più cupi dei Depeche Mode. Segue “Gasoline and Dirty Sheets” che è una parabola sull’immigrazione – se vogliamo – descritta in maniera abbastanza laterale, tramite un uomo che può diventare re ovunque esso sia soltanto formando una coppia, una famiglia. Un messaggio abbastanza adolfiniano a dire il vero, ma che fa il paio con “Reasons To Be Cheerful”, la serie di reading organizzati dallo stesso Byrne nell’ultimo anno, in cui ha raccolto storie, notizie, idee ed altro materiale che esemplifica o identifica cose che ispirano ottimismo. Il disco stesso contiene in maniera latente questo concetto: indagare lo stato attuale della società pur offrendo motivi di sollievo attraverso le canzoni. Lo dice lo stesso artista: “Non è facile, ma la musica aiuta. La musica è come un modello, spesso ci guida verso come possiamo essere”.
“Everyday is a miracle” è molto più Talking Heads di quanto non si possa credere, è una festa, il brano che forse più di tutti sintetizza l’ottimismo che si respira lungo i solchi di questo album, a cui fa da contraltare “Dog’s Mind”, ballata amara e dolente, che riguarda chi non riesce a riscattarsi agli occhi della comunità, tema affrontato in maniera molto delicata su un crescendo melodico-sentimentale imponente.
“This is That” propone invece un ritornello possente e ficcante su un arrangiamento etereo, leitmotiv che si ripete anche in “Bullet”, e sfido ad ascoltarla e non ricordare subito l’acuto del ritornello. Il primo singolo “Everybody is coming to my house”, piazzato quasi in fondo al disco, mette invece in risalto la capacità di Byrne di essere protagonista assoluto del tempo, mantenendo credibilità anche proponendo un brano di fatto non molto diverso dallo stile dei The XX, tanto per fare un nome.
La cover dell’album è un lavoro di Purvis Young, ed è un dipinto che raffigura una testa con una faccia di razza e genere indeterminati mentre sogna, medita o contempla la vita.
Dieci canzoni una più bella dell’altra, un disco d’autore, sicuramente da collezione ma non di certo un disco stanco. David Byrne ha ancora tanto da dare e da raccontare, e con questo “American Utopia” dimostra di essere ancora in grado di creare brani che trovano una sintesi perfetta tra l’impegno dei testi e la leggerezza musicale.
(Mario Mucedola)
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