Qualcuno si chiederà se nel 2017 c’è ancora bisogno che Morrissey elevi il pop dai suoi contenuti inoffensivi, portando il proprio punto di vista sulla situazione socio-politica internazionale infarcendola di storie d’amore senza scadere nel ridicolo. La risposta ha sicuramente due fazioni agguerrite: quella che ormai lo liquida come il solito piagnone dalla lingua avvelenata intento a criticare qualsiasi cosa gli capiti sotto il suo lungo mento. Alcuni potrebbero addirittura utilizzare il titolo del suo precedente disco, eliminando la parola “Pace” per tenerlo alla larga dai fatti della vita (“Il mondo non è affar tuo”, trad.) e augurargli di godersi anticipatamente la pensione. L’altra fazione annovera i fan che si porta dietro da quando negli anni 80 divenne il frontman degli Smiths, assieme a quelli reclutati negli anni da solista. Questi invece vorrebbero da lui un disco all’anno, un tour perpetuo (senza date cancellate all’ultimo momento, please/please/please) e una rubrica (del cuore) quotidiana con un commento sulle notizie dei giornali.
Ed è risaputo che Morrissey sia sempre stato un tipo scomodo tanto su disco quanto e soprattutto durante le interviste – e lo dimostrano le sue ultime presunte esternazioni sul caso Weinstein/Spacey prontamente smentite -, gli si può dire tutto tranne di essere banale e in questo nuovo album dimostra che all’eta di 58 anni ha ancora parecchio da dire: Low in High School dimostra quanto Moz abbia una visione lucida e tagliente su politica interna ed internazionale, sull’odiata monarchia (quella inglese su tutte) – a cui “dedica” la copertina dell’album con il figlio del suo chitarrista, davanti Bucking Palace, che impugna un’accetta nella mano destra e un cartello nella sinistra su sui capeggia la scritta “Axe the Monarchy” -; sulla società (in)civile soggiogata dai media che, a suo dire, distorcono la realtà cantando “Teach your kids to recognize and to despise all the propaganda/Filtered down by the dead echelons mainstream media” nel rock muscolare della prima traccia “My love, I’d do anything for you” o “Stop watching the news!/ Because the news contrives to frighten you/To make you feel small and alone/To make you feel that your mind isn’t your own” cantata nel pop mellifluo di “Spent The Day In Bed”, permettendosi di dire la sua comodamente sdraiato nel letto di casa. Tuttavia le imbeccate riguardano soprattutto una classe politica assente, interessata a riempire il proprio ventre obeso, abulico nella risoluzione dei problemi delle classi meno abbienti, trovando però sempre il tempo di inserire la storia di un amore quasi sempre non corrisposto (“The security force is always the worst/Government advised, they’re spraying our eyes/ They live to kill and they love just to harm/And I’m dreaming of touching your arm”, da “In Your Lap”).
Musicalmente siamo tornati ai fasti di “Vauxhall and I” e del più recente “Year Of Refusal”, per fortuna il disco perde quasi del tutto quell’impronta “latin” che ha condizionato l’atmosfera generale di quello precedente (se ne troverà traccia nella buona “When You Open Your Legs” dove la romanticheria Morrisseyana viene guastata da un bridge di flamenco abbastanza fuori luogo) a favore di arrangiamenti eterogenei e più a fuoco rispetto alle ultime produzioni discografiche grazie anche ai flirt di chitarra di Boz Boorer e Jessie Tobias, e alla sezione ritmica corposa di Mando Lopez (basso), Matt Walker (batteria) e Gustavo Manzur (percussioni, tastiere).
La scaletta appare stilata per alternare brani dall’aria drammatica (“Home Is A Question Mark” e “In Your Lap”, brani questi che faranno impazzire i fan del Mogsy più struggente) a quelli dall’aspetto più brioso come “I Wish You Lonely”, “Spent The Day In Bed”, “All The Young People Must Fall In Love” e “Jacky’s Only Happy When Is Up in the Stage”, quest’ultima dai versi a prima vista sempliciotti nasconde in realtà un sotto testo in cui Moz trasforma la Union Jack nel suo corrispettivo femminile, proprio sul finale viene svelato un punto di vista che capovolge la trama principale: “Scene Six: This country is making me sick!” (…) “Everybody’s heading for the exit, exit”. Un modo, questo, per esprimere il proprio disprezzo per un Paese, l’Inghilterra, che non merita certe attenzioni, ossia quelle di Morrissey e di riflesso quelle della bandiera e di contro la decisione chiamata a gran voce dalla maggior parte del popolo Inglese (con Moz in testa) di uscire dall’Unione europea.
Poi dedica con ancora più ardore ben tre brani alla situazione mediorientale: la Tel Aviv in chiave bossanova, non completamente riuscita, di “The Girl from Tel-Aviv Who Wouldn’t Kneel” dove appunto la protagonista cerca di scardinare, nel suo piccolo, quella cultura maschilista e profondamente radicata in una religione dove la donna è mero oggetto nelle mani del marito, del dittatore, del profeta (qui si parla di Islam ma il concetto è applicabile anche a quella Cattolica); Alla Primavera Araba che per un periodo di tempo ha fatto pensare alla vittoria del popolo e ad un possibile cambiamento democratico (“The people sing when the warlords all burn/ Do not feel sad, it’s simply their turn”, da “In Your Lap”); e infine un appello direttamente ad Israele con una canzone dall’andamento drammatico posta alla fine dell’album, in cui la voce di Morrissey aleggia spettrale tra un pianoforte carico di pathos, una batteria che simula una marcia e le tastiere ad ammantare l’atmosfera con un sudario funebre (“The sky is dark for many others/They want it dark for you as well/Israel/Israel”).
Non manca l’accusa verso le forze del (dis)ordine in “Who Will Protect us from the Police”, forse il brano del plot con gli arrangiamenti più moderni grazie ad un uso “urbano” dei synth e alle percussioni in primo piano e più in generale il dito puntato verso l’arruolamento nell’esercito di giovani senza arte ne parte, vedi alla voce “carne da macello” nascosta sotto quella di “portatori di pace”, che si ritrovano eroi loro malgrado “grazie” ad un proiettile ficcato in testa e alla falsità raccontata dai familiari per giustificarne l’inutile decesso “When I lose mine, my mother will say: he died doing the job he loved’/But I died with a bullet to the forehead/That wasn’t the job I loved”.
Nonostante facciano parlare più le sue vicissitudini extra musicali Morrissey resta un osservatore arguto, in grado di analizzare la vita in modo affilato e ironico, con testi mai buttati lì giusto per fare rima o utilizzati come elemento secondario rispetto agli arrangiamenti, anzi per lui è vero il contrario. Resta il fatto che “Low In High School” segna un punto a favore nella sua discografia e in quella di chi crede ancora nelle storie che racconta, con buona pace dei detrattori che dovranno pazientare ancora qualche anno per la pensione di Morrissey.
(Antonio Capone)
Aggiornamento 07/12/18: A distanza di un anno dall’uscita di “Low In High School”, e a poche settimane dal Natale (chi vuol capire capisca), Moz pubblica una “deluxe extreme version” contenente tre inediti – “Lover-To-Be,” “Never Again Will I Be A Twin,” e “This Song Doesn’t End When It’s Over” – e non mancano alcune delle cover eseguite nel corso degli ultimi anni dal vivo (quando riusciva ad esibirsi) come “Judy Is A Punk” dei Ramones, “Back on the Chain Gang” dei Pretenders, “You’ll Be Gone” di Elvis Presley, “Rose Garden” di Lynn Anderson e “Are You Sure Waylon Done It This Way” di Waylon Jennings. Qua sotto puoi ascoltare tutto il disco.