Mi sembra ieri la prima volta che mi è passato per le orecchie un brano dei Protomartyr, alfieri della nuova ondata post-punk degli anni 10 e ormai giunti al quarto disco. Dopo l’esordio, ancora influenzato da certo indie stantio, ed i folgoranti Under Color Of Official Right e The Agent Intellect, il quartetto di Detroit è arrivato all’album della definitiva maturità artistica.
Relatives In Descent porta alle estreme conseguenze la poetica dell’anticonico cantante Joe Casey e le essenziali musiche condotte dalla chitarra di Greg Ahee. Partendo proprio dalla musica, siamo di fronte all’essenza stessa del post-punk, così come inteso dai nostalgici dei Joy Division: chitarre abrasive e sognanti, ritmiche spezzate e compatte, un suono unico tanto grezzo quanto riflessivo e profondo.
Lo zenit sonoro del disco è l’apocalittica “Windsor Hum”, che si piazza al centro del disco e al suo interno racchiude un crescendo di delusione, che esplode nelle bordate sonore di certo alt-rock più intellettuale che di pancia (Sonic Youth, forse?).
Il resto del disco strizza l’occhio a Pere Ubu e Wire, consolidando un certo revivalismo, che però non scade mai nella banale scopiazzatura.
Il reale valore aggiunte del progetto è, comunque, l’enorme performance di Casey, che si conferma uno dei migliori interpreti della nuova ondata musicale alternativa occidentale. Il biascicato modo di “cantare” non scade mai nella sterile declamazione dei testi, ma tende all’interpretazione prima poetica, piuttosto che canora delle canzoni.
“Don’t Go to Anacita” è uno dei pezzi più interessanti dal punto di vista interpretativo: le musiche frenetiche fanno da tappeto alla voce baritonale e genuinamente stonata di Casey, che si lancia e rilancia in invettive cruente e ciniche.
“Relatives In Descent” si conferma, dunque, come l’opera della maturità per la band di Detroi, pienamente conscia del suo potenziale.
(Aaron Giazzon)