L’Auditorium Paganini è ricavato dal capannone di un’ex-fabbrica di zucchero chiusa negli anni ‘60, l’Eridania. Renzo Piano, incaricato della “conversione”, del rettangolo di cemento ha conservato solo i lati lunghi in muratura creando in corrispondenza della base, delle vetrate sorrette da tiranti d’acciaio, a creare un effetto “cannocchiale” che si proietta sui cedri del Libano e i platani del parco. All’interno, come ogni auditorium, cascate di legno fonoassorbente e un piano inclinato per i posti in platea, unico ordine della struttura.
Quando salgono i Selton, il pubblico sta ancora riempiendo l’auditorium in attesa di Maria Gadu, ma bastano le prime note di “Tupy or not Tupy”, supportata dalla batteria di Daniel che risuona megalitica all’interno della sala, per creare l’effetto panico e far sì che tutti corrano verso i posti a sedere, scatenando un applauso spontaneo alla fine del brano, che come riscaldamento non è affatto male. Per “spiegare” chi sono calano subito l’asso di “Luna in Riviera”, che fa cantare il pubblico col suo irresistibile pa pa ra pa pa pa. Sciolti gli indugi, i ragazzi si presentano, e continuano con la collaudatissima “Qualcuno mi ascolta”. Ma siamo in pieno tour promozionale, e devono trovare spazio anche e soprattutto i pezzi di Manifesto Tropicale. Per questo arrivano in sequenza “Sampleando Devendra”, una “Jael” che porta con sé una lunga coda strumentale elettrica, che mostra un animo quasi rock per la band del quartiere Loreto. A contraltare segue una versione unplugged di “Lunedì”, con Ramiro armato di chitarra classica e gli altri a fare i cori attorno a un unico microfono. Un brano che rende decisamente meglio in questa versione rispetto a quella sul disco, bisogna ammetterlo. Convince i più scettici, come i miei vicini di posto che non facevano che ripetersi “ma cos’ha da cambiare la chitarra a ogni pezzo?”, che si sciolgono in un applauso appassionato al termine del brano. Ma i Selton sono soprattutto quelli che fanno ballare, e arriva la freschezza di “Tanta voglia di infinito” che fa cantare il pubblico e l’altro singolo del nuovo album, “Cuoricinici”. Chiude il concerto “Terraferma”, canzone che parla di congedo, di saluti, ottima scelta come ultimo brano, lascia il tutto in sospeso, come un “To be continued” alla fine di un episodio. La prova del live i Selton l’hanno già superata tante volte ma è bello vedere come continuino a crescere anche sotto il profilo tecnico ed esecutivo nel live, dando sempre l’impressione di una band, che per fare quello che fa, prima di tutto si diverte.
C’è da arrivare all’Auditorium Paganini, un po’ perché a Parma gli autobus reggono fino alle 20, poi non ci son più, un po’ perché si è scelto di intercettare i Selton tra il soundcheck e il concerto, dopo lo sketch degli elegantissimi cialtroni ma prima dell’arrivo delle pizze per lo staff, in tempo per tutto. Ci accomodiamo sul palco, data la sala ancora chiusa, attorno agli strumenti, seduti a terra, siamo io, che sto dando le spalle alla platea immaginaria, Daniel e Ramiro.
Il vostro album riporta al Manifesto Antropofago, che spiega come la cultura brasiliana sia frutto dell’assorbimento di altre culture, che vengono cannibalizzate, rimescolate e restituite in una nuova forma. Che è un modo bello e lungo per usare il termine “integrazione”. Avete fatto un disco che parla di integrazione, che è un tema molto difficile per l’Italia. Cosa credete di aver assorbito dall’Italia a livello musicale e anche personale?
Daniel: Tanto, anche delle cose che sono difficili da spiegare a parole. Ci siamo integrati molto, praticamente tutti i nostri amici o le fidanzate sono italiani!
Ramiro: Se invece parliamo di musica, credo che una cosa che abbiamo preso molto dall’Italia è l’attenzione alle parole, ci siamo accorti che qui ce n’è tanta, ad esempio nella tradizione del cantautorato. È molto importante quello che stai dicendo perché all’inizio che eravamo molto più leggeri soprattutto a livello di testi, venivamo presi come spensierati, e invece questa credo sia stata una bella influenza perché ci ha permesso di mettere a fuoco il nostro messaggio.
Daniel: Si, e poi questa cosa è una discussione interessante, perché anche David Byrne, prima di conoscere la cultura brasiliana, diceva che uno per avere questa densità artistica deve essere o triste o incazzato, e quando lui è entrato in contatto con la cultura brasiliana si è accorto che c’era una cultura che non era necessariamente incazzata o triste e aveva questa profondità, ed è una cosa che quando siamo arrivati in Italia abbiamo notato parecchio perché non davamo così tanta importanza al testo ma più alla musica, ed è una cosa sia brasiliana ma anche inglese, generalizzando, non c’è la stessa attenzione al testo che c’è nella tradizione del cantautorato italiano.
La vostra musica finora è stata molto più votata alla samba, mentre “Manifesto Tropicale” ha un senso più bossa, ha ritmi più pacati, è molto meno festaiolo. Cosa è cambiato dal precedente album?
Ramiro: Secondo me siamo cresciuti, abbiamo vissuto tante cose e abbiamo sempre più cose da dire. Credo sia un processo naturale, o almeno per noi lo è stato.
Quando si parla di Brasile e di brasiliani, i concetti sono più o meno gli stessi. Abbiamo parlato di samba e di bossa nova, arriviamo alla saudade. Mi ricordo la canzone di Gilberto Gil che diceva “toda saudade e a presencia da ausencia de alguem”, che è un po’ il motore che muove un brano come Jael. È possibile superare l’assenza cantando?
Daniel: Credo sia un po’ una sorta di catarsi, è un piccolo funerale, celebrare qualcosa che è esistito. Jael nello specifico parla della mancanza di una persona, della morte di mia nonna. Quando riesci a trasformare quella persona in musica, quando riesci a mettere in parole una cosa che comunque amavi e hai perso, quella cosa ha una nuova vita, così la perdita non è necessariamente un qualcosa di negativo, perché crea del nuovo.
Ramiro: Credo che la musica abbia tanti ruoli. Una delle funzioni più belle secondo me è proprio questa di trasformare, quindi spesso da situazioni difficili e dure e tristi, nascono proprio delle cose belle, che ti fanno sublimare.
In questo disco cantate in tre lingue. Decidete da prima quale lingua adottare o seguite un flusso di coscienza che vi porta dove vuole?
Daniel: Di solito ogni pezzo arriva nella sua lingua…
Ramiro: …ma non è detto che rimanga in quella lingua. Spesso facciamo l’esercizio di tradurre per vedere cosa succede, e poi da lì magari nascono nuovi spunti.
C’è un brano che mi piace definire a schema libero, “Tupy or not Tupy”, che è tra l’altro anche una citazione del Manifesto. Quello è un brano in cui tutto quello che ci siamo detti finora viene messo nel frullatore. È questo il vero e proprio Manifesto dei Selton?
Daniel: C’è una caratteristica molto forte di noi come band, siamo un collettivo. È quasi come se quello che facciamo deve essere sempre “potenziato” dall’individuo al gruppo. E quindi è molto difficile dire quello che vogliamo dire perché ognuno di noi vuole dire un sacco di cose. Esteticamente sono molto d’accordo con te, perché “Tupy or not Tupy” più che una questione testuale, è un grande mix a livello estetico. È proprio un mix di chitarra afrobrasiliana, con un beat elettronico con una batteria rock. C’è di tutto, tutte le lingue, citazioni supercontemporanee e citazioni più nascoste, ad esempio di canti afrobrasiliani degli anni ‘40. Lì dentro ci sono una serie di agganci che parlano di densità ma a un primo ascolto ti può sembrare superficiale, perché non hai colto tutte le cose che ci sono attorno. Direi che a livello di estetica si, è il nostro manifesto, a livello di contenuto no.
Quali sono i buoni propositi ancora sul piatto dei Selton? Qual è una soddisfazione che vorreste togliervi? Qualcosa che vorreste fare?
Ramiro: Una collaborazione con Caetano Veloso, quella la sogniamo da una vita. In Italia, invece ci piacerebbe collaborare con Ghali, ci troviamo tanto, abbiamo molte cose in comune.
Lo stesso concetto di mix culturale.
Ramiro: Esatto, poi il suo messaggio è molto positivo. Magari chissà, presto…
(Mario Mucedola)
Foto: Selton Facebook Fanpage