Non è passato neanche un anno da quel gran bel disco che era Loreto Paradiso, ed ecco che già sono di ritorno i Selton, stavolta con Manifesto Tropicale, disco emblematico già dal titolo. Il titolo in sé assomma le esperienze culturali più significative del Brasile del XX secolo, ovvero il “Manifesto Antropofago” di Oswald De Andrade, in cui per la prima volta viene esplicato il principio di “cannibalismo brasiliano” nel senso di assorbimento delle culture esterne e loro restituzione in forma peculiare, e il tropicalismo dei semidei Gilberto Gil e Caetano Veloso.
Un disco che affonda le sue radici oggi più che mai in quei novemila chilometri che separano Milano da Porto Alegre e che proprio lungo questo percorso ci conduce per mano. Iniziamo a salutare tutti con “Terraferma”, storia di partenze, di addii e di speranze e ci dirigiamo subito in Riviera, dove ci attende la luna che disegna il cielo di un’estate italiana (una delle metafore che meglio descrivono l’intenzione dello scrittore che abbia mai ascoltato). “Sampleando Devendra” è un chiaro omaggio al cantautore statunitense Banhart, infatti si rifà a certe atmosfere folk asciutte, se vogliamo abbastanza insolite per il gruppo. Si sente molto la mano preziosa alla produzione di Tommaso Colliva, che ha già collaborato con Afterhours, Muse, Franz Ferdinand e Phoenix. “Cuoricinici” l’abbiamo già conosciuta per quel pezzo esplosivo che è, con l’acme del refrain che assurge quasi a momento liberatorio, a ricordarci quanto bella sia l’immediatezza di un vaffanculo rispetto al ricercare una forma per non ferire gli altri. C’è spazio per tre lingue in questo album e perciò arriva la delicata ballad “Jael”, a stendere la patina della morte sulle cose belle e spezzarci il cuore e la successiva ed eterea “Stella Rossa”, che pare fare il verso a Fabio Concato, per quanta delicatezza c’è dentro. Pur essendo il disco con atmosfere più bossa e meno indie, quindi il disco più brasiliano, ad una breve conta risulta essere il disco con più brani in italiano, spiegando dunque il senso dell’antropofagia paventata da De Andrade. Non si tratta di ingurgitare e basta, ma ingurgitare, mescolare e restituire in una nuova forma che contenga tutti gli elementi. A supporto della mia tesi arriva “Tupi or not Tupi” oltre ad essere una frase dello stesso Manifesto Antropofago, rifacentesi alla popolazione Tupi stanziale nel Brasile, è un pezzo colorato ed incalzante, dove si sente la mano di Dente, che da sempre si occupa della revisione linguistica dei testi (sono indio o indie è una frase che può venire solo dal cantautore di Fidenza) oltre a trovare una citazione di Rihanna nel bel mezzo di un brano che le tre lingue del disco le racchiude in meno di tre minuti. “Lunedì”, col suo malinconico hangover di cachaça chiude idealmente l’album che è finora il più maturo dei Selton, quello in cui il loro essere brasiliani emerge con meno paillettes e lustrini e più come semplice provenienza geografica, senza quell’aria di festa di “Tanta voglia di infinito” oppure “Eu nasci no meio de um monte de gente”.
“Manifesto Tropicale” finisce con l’essere il manifesto musicale dei Selton, e sinceramente un manifesto così lo terrei attaccato in camera mia per tutta la vita.
(Mario Mucedola)