Se la temperatura, poco clemente anche d’estate, mi ha frenato dal realizzare un viaggio da tempo sognato, sarà la musica a convincermi a sfidare il clima di una terra – l’Islanda – che in quanto a produzione sonora ne sta sfornando in gran quantità (e qualità). Iniziando dall’arcinota Björk fino ad arrivare agli ormai conosciuti Sigur Ros, passando per Samaris e Soley, si aggiungono alla lista anche i Vök, attivi dal 2013.
Dopo due EP, eccoli al debutto con questo Figure, uscito la scorsa primavera, con la formazione allargata dai due membri fondatori (Margrét Ran – voce e Andri Mar – sassofonista) ai quattro componenti attuali (Ólafur Alexander Ólafsson – chitarra, basso e Einar Hrafn Stefánsson – percussioni).
Ho ascoltato questo album come se fosse stato un vinile e ho rielaborato la sequenza dei pezzi in un ideale lato A e lato B; e in questo modo risulta evidente come una serie di brani – che io ho accorpato nella prima metà – manifestano ritmi e suoni più meditati, corposi, cupi, dominati da una voce più intima e sotterranea (“Breaking Bones”, “Figure”, “Polar”, “Floating”, “Lightning Storm”) – tipo Portishead, per intenderci, mentre la seconda metà del lavoro è più “leggera”, pop, orecchiabile anche a un ascolto più distratto, tipo certi The XX con un Jamie sottotono (“BTO”, “Don’t let me go”, “Show me”, “Crime, Hiding”).
Considerando che certi rimandi ad influenze che si percepiscono più o meno nettamente sono d’obbligo quando si scrive di musica, soprattutto per dare dei parametri di riferimento a chi legge, questo non significa che ci troviamo davanti a dei plagi (altrimenti non saremmo nemmeno qui a scriverne); questi Vök sono tanto bravi quanto giovani (e raramente, si sa, le due cose vanno di pari passo), la voce di Margret è limpida e con un bel timbro (basta visualizzare una delle performance live presenti su You Tube per averne conferma) e “Figure” è complessivamente un lavoro gradevole e rende l’idea delle prospettive e delle potenzialità dei Vök.
Va anche detto però che sembra che gli arrangiamenti abbiano volutamente smorzato certi toni più introspettivi (secondo me, però, i più pregevoli ed interessanti) a vantaggio di una fruizione complessivamente più “facile”, cosa che è valsa loro l’appellativo di dream pop band.
A questo punto, è d’uopo augurare ai Vök una carriera di grandi soddisfazioni, cosa che le loro oggettive capacità meritano, ma è anche legittimo augurarsi che, se non vogliono ritrovarsi ad essere dimenticati anzitempo, spingano di più su quelle atmosfere rarefatte e a tratti imprendibili tipiche della loro terra e di quel lato A che personalmente preferisco, perché è lì che c’è qualcosa che potrebbe renderli unici.
(Patrizia Lazzari)