Un piatto di salsa di pomodoro in cui galleggiano le letterine di pasta che scrivono le parole Damage and Joy, questa la foto in copertina nell’ultimo album omonimo dei The Jesus And Mary Chain.
Una foto di stile decisamente non contemporaneo, che ricorda gli still life sgraziati di Nan Goldin, dove impera sempre quella luminosità seppia un po’ acida.
Con questa premessa, l’album è esattamente quello che c’era da aspettarsi: un disco pop intessuto di distorsioni, che si regge su una celata psichedelia, si alterna ad un rock acido e ti schiaffa dritto dritto in un tunnel spazio-temporale fra gli anni ’80 e il primo 2000. Dello stile in voga negli ultimi anni non ha proprio niente, questo diciamocelo subito. La band non ci prova nemmeno un po’ a venire incontro alle tendenze, e quasi vent’anni dall’ultimo disco sono tanti, ma questo non li rende né dei nostalgici né degli innovatori. Con “Damage And Joy”, si impegnano a non tradire se stessi e a non sembrare vetusti. Un difficile equilibrio che trovano mollando tutto ciò che li renderebbe una cover di loro stessi: addio al riverbero, addio al pianterello adolescenziale, addio alla batteria di rullante e piatti. Il sound si presenta maturo e compiuto, anche se leggermente chiuso in se stesso, le sonorità sono regolate molto più di quanto non fossero qualche decennio fa, si sente l’esperienza degli anni passati e il risultato è clamorosamente piacevole e anche, in un certo qual modo, cool. Nel panorama musicale, infatti, il disco si colloca in maniera quasi provvidenziale in uno stile quasi revival – che funziona più che mai in questo periodo privo di veri fenomeni musicali che non siano usa e getta.
Spensierato, orecchiabile, fresco e tecnicamente bello, è il disco perfetto per un viaggio in macchina in un pomeriggio da occhiali da sole. E dai su, potete sorridere, non vi serve più lo stereo con l’audiocassetta per poterli ascoltare.
(Serena Lucaccioni)