Sohn (recensito giusto giusto tre anni fa, proprio su queste pagine) è tornato tra noi: nel mentre, ha fatto un figlio, ha viaggiato parecchio, si è trasferito di nuovo, prima da Londra a Vienna e ora da Vienna a Los Angeles… a questo proposito è curioso che il primo album, concepito nella capitale austriaca, abbia un titolo inglese e il secondo album, concepito in una città americana, ne abbia uno in tedesco – che, per inciso, è un verbo e significa correre.
E la fine della corsa è, per tutti, un momento di riposo, tranquillità, recupero di energie; e quindi, trattandosi di un musicista, è ovvio che queste energie vengano spese in una nuova pubblicazione. Questo Rennen riprende le tonalità di Tremors, solo che le passeggiate solitarie di Sohn si sono spostate dalle vie desolate di una città mitteleuropea alle lande sterminate della California. Se il primo lavoro risentiva di una certa cupezza d’animo e restituiva atmosfere derivate da un paesaggio gelido e lunare, il nuovo album dà più calore e, in un certo senso, pare illuminato da un bel sole caldo. Le caratteristiche che contraddistinguono questo artista, però, sono tutte lì: un post-modern soul, con sonorità elettroniche, cantato delicato con parecchio falsetto, ma di gran gusto, e una sonorità asciutta, minimal, pure troppo in certi momenti, oserei dire… nel senso che, come nel precedente, i suoni sono ridotti al minimo, a realizzare una cornice essenziale per quello che è il soggetto principale di questa opera: la voce. Si coglie più ritmo e anima, nel senso musicale del termine, e un’indole più americana, in senso rock (“Hard Liquor”), in senso blues nella sua versione più easy (“Conrad”); il tutto condito da una persistente matrice soul-elettronica che, seppure un po’ inflazionata, Sohn traduce a suo modo, con grande originalità. “Signals” (il video allegato è quello ufficiale, girato da Milla Jovovich) è il pezzo più intenso e quello nel quale si ritrova maggiormente il marchio di Sohn, con un respiro nuovo e una dilatazione di effetti assolutamente magica.
E, se proprio si volesse trovare un “ma”, il risultato complessivo (forse perché l’album è stato realizzato d’impulso) risente di un’eccessiva compattezza, che scivola, a tratti, in un po’ di monotonia. L’augurio è che Sohn non resti imbrigliato in un genere che lo ha reso popolare ma all’interno del quale è difficile re-inventarsi.
(Patrizia Lazzari)