Paragonati ai Tre Allegri Ragazzi Morti per il fatto di iniziare i concerti mascherati, ai Litfiba per il timbro di voce del cantante, ai Negrita per il loro approccio diretto, possiamo tranquillamente affermare che i Capobranco non somigliano a nessuno dei tre gruppi citati. Infatti sono bravi.
Il Grande Zoo è il loro nuovo maxi EP di sei tracce, una cavalcata all’inferno del sarcasmo, tanto bruciano i loro testi. Certo, qualcosina qua e là è rivedibile, soprattutto a livello testuale ma stiamo cercando i difetti nella Venere di Milo. Il grande zoo è un EP godibile e fresco, frutto di una band che si diverte tanto a suonare (questa è la percezione che si ha, chiara, durante l’ascolto). A metà tra il funk-rock dei Kutso e l’essere surreale di Giovanni Truppi, il Capobranco è una band senza baffi. Ragazzi, sono veramente euforico: questi qui non hanno i baffi, non si vestono da cretini, non si danno arie da chansonnier se poi scrivono per Luca Carboni e fanno anche musica bella.
“Il grande zoo” è la coerente evoluzione dell’album d’esordio. Se il filo conduttore del primo disco era infatti la sarcastica celebrazione dello spirito animale che, da dietro le quinte, contamina la personalità di ciascuno di noi, in questo lavoro il Capobranco alza la testa per osservare come i comportamenti umani, così come le relazioni e interazioni tra persone, non siano poi così diversi da quelli che si trovano nel resto del mondo animale. La civiltà in cui viviamo non è altro che un grande zoo in cui troviamo personaggi a dir poco strani, dal selfomane a quello che si esprime tramite citazioni, poco importa se non ha idea di chi sia l’autore fino al fonico, creatura mitologica metà uomo metà pippolini da girare in sala, che nella sua solitudine da fondo palco conviene sempre che sia meglio alzare il volume dell’amplificatore della chitarra, magari copre gli errori della band.
C’è spazio anche per i sentimenti in questo EP e “Miele di vespa” ne è l’esempio lampante. A mio parere la maturità sta anche nel chiamare le cose col proprio nome, e lo so che siamo tutti traumatizzati dal binomio cuore-amore, ma ogni tanto bisogna anche chiamare le cose col proprio nome. Dal nome del brano pensavo chissà che, invece è una gradevole ballad, che sarebbe stata ancor più gradevole con un nome meno teen. Il colpo di genio però sta nell’avere un gruppo rock, dichiarare lucidamente che il rock è fuori moda (quando dici che fai rock, pensano cover rock) ma farlo usando le sonorità che aveva il rock l’ultima volta che era di moda, nella british invasion dell’indie di circa dieci anni fa.
Non avevo mai dedicato così tanto tempo e spazio ad un EP su queste pagine virtuali, e se l’ho fatto è solo perché sono completamente abbacinato da questo gruppo. Prendete nota, scrivete sulle vostre Moleskine “ascoltare il Capobranco” e fatelo, non ve ne pentirete. O comunque tenetene in conto il nome, ve lo troverete davanti molto presto. A meno che il rock non vada definitivamente fuori moda.
(Mario Mucedola)