È una Milano domenicale piovosa e fredda quella che ospita la prima delle due date italiane (la seconda il giorno dopo, a Firenze) della tranche autunnale del tour di PJ Harvey. Fuori dall’Alcatraz, le forze dell’ordine provvedono a sequestrare il merchandising tarocco venduto dagli abusivi sistemati nella strada che ospita il locale (abusivi che rispunteranno adeguatamente riforniti al termine dello show). Dentro, il pubblico rumoreggia: la regina della serata si fa attendere un quarto d’ora in più rispetto all’orario di inizio previsto, poi entra sul palco, accolta da un boato, con tutta la band di nove elementi, schierati come in una parata militare con trombe, tamburi e grancasse.
La prima cosa che mi viene in mente, guardandola, è quella canzone degli Afterhours che fa: “Rivoglio le mie ali nere, il mio mantello”. Polly Jean questa sera ha davvero le ali nere: è letteralmente ricoperta di piume corvine, a partire dall’acconciatura che le dona un’aria vagamente “Maleficent”. La scaletta parte con “Chain of keys” e sarà prevalentemente dedicata all’ultima fatica della nostra eroina. L’album The Hope Six Demolition Project verrà riproposto praticamente per intero, con qualche concessione al disco precedente, Let England Shake, e al passato con cui si è fatta conoscere dal suo pubblico.
Per tutta la durata dello show, il suono è potente e ben calibrato (del resto, con una band che vede al suo interno fuoriclasse come John Parish e Mick Harvey non potevamo aspettarci di meno) e la voce di Polly è assolutamente incredibile. Mentre canta, penso che è una delle pochissime artiste in grado di modulare la voce fino ad arrivare a rendere sexy e ammalianti quei suoni acuti che, normalmente, provocano nell’ascoltatore l’effetto “unghie sulla lavagna”.
Qualcuno l’ha definita “fredda” e “troppo perfetta”: niente effetti speciali, nessun ammiccamento al pubblico, nessun “Thank you, Milan”, solo la presentazione ad uno ad uno dei componenti del gruppo, con acclamazione generale dei due italiani presenti tra i nove membri, il giovane e bravissimo chitarrista Alessandro “Asso” Stefana ed il polistrumentista Enrico Gabrielli, accolto con un calore e con un “Daje Enrico” urlato poco prima, che hanno fatto pensare ad una bella delegazione di amici ed estimatori giunta apposta per applaudirlo (effettivamente, a fine serata tra il pubblico ho visto molti musicisti: Giovanni Gulino dei Marta sui Tubi, Cristiano Godano dei Marlene Kuntz, Samuel Romano dei Subsonica, Rodrigo D’Erasmo degli Afterhours, probabilmente tutti ascoltatori della Harvey dagli anni ’90 di Dry e di Rid of Me).
A me PJ Harvey non è sembrata fredda o distaccata. Piuttosto, mi ha fatto pensare a quel vecchio spot di pneumatici che diceva: “La potenza è nulla senza controllo”. Mi è sembrata concentratissima in tutto: nell’uso della voce, nei gesti di mani e braccia ad accompagnare le parole, nel dondolio sulle gambe mentre suonava il sax, nello stare sul palco mentre si prendeva la scena ma, nello stesso tempo, sapeva lasciarla ai suoi splendidi musicisti quando era il loro momento.
Esile da sempre nel corpo minuto ma immensa nella presenza e nella padronanza di sé sul palco: ad avercene, di donne e di artiste così, ci sarebbe solo da guadagnare, per la musica e per un modello di femminilità fuori da ogni stereotipo.
(Marinella Mangione)