Finn Andrews lo aveva giurato, i The Veils torneranno ancora più forti e oscuri di prima, torneranno a far grandi numeri nel gran circus del rock out mainstream. E come in un gioco di prestidigitazione la “profezia” si manifesta in tutta la sua strabordante pulsazione lungo le dodici tracce di Total Depravity, il disco che riporta la band neozelandese (ma londinese d’adozione) ai vertici delle sonorità mutanti tra il nero e il grigio, ora con stranianti loop e allargamenti di synth (“Low lays the devil”, “Here come the dead”), che si introducono influenzando l’ascolto – se non addirittura profumandolo – di pollini Coldplay (“A bit on the side”) o Lanegan(iani) (“Lodine & Iron”, “House of spirits”), un pop rock viziatamente imbronciato e cool che batte nelle tempie e dilata le vene.
Come sempre l’ombra di Nick Cave cova sotto le ceneri, ed è una fonte ispiratrice che giova molto alla band, li rende invulnerabili nelle espressioni sopraffine che sciorinano tra suoni enfatici e ritmi ossessivi, mai uno sdoppiamento, ma un conseguimento mantrico che nelle braci mistiche di “In the blood” rende chiare le traiettorie riflessive dell’intero lotto.
Con la collaborazione di EL-P dei Run The Jewels, i cinque The Veils si radicalizzano positivamente nella propria “favola oscura”, la rendono neuronale, fino a tempestarla di sollecitazioni e disincanti, come una scienza cuspidale che tra spirali e climax pentecostali rende al massimo la sua forte passionalità Total Depravity. Centro!
(Max Sannella)