Gli How Beats Why sono una band di Roma composta da quattro elementi, capitanati dal compositore, cantante e chitarrista Giorgio “Posho” Carotenuto. “Blunk” è il loro secondo disco, dopo l’esordio “Pink Pigeon” del 2013, e porta all’estremo il concetto di eterogeneità applicato all’indie. L’album è composto da dieci pezzi nessuno simile all’altro. Anzi, pare quasi che ogni canzone sia suonata da una band differente per influenze e atmosfere, non fosse per la caratteristica voce di Posho e per il sax di Sabrina Coda unici trait d’union tra un episodio e l’altro.
La prolificità di stimoli e soluzioni sonore rende l’ascolto incredibilmente stimolante e un poco straniante. A lungo andare, invece, emergono con prepotenza i pezzi meglio riusciti che sono piccoli capolavori di art-indie in pieno stile Deerhoof, la band internazionale più vicina ai nostri. Si parte, infatti, con la titletrack, pezzone che resta in mente pur non avendo nulla di melodico o scontato sia strumentalmente che vocalmente. La successiva “Inspiration Radio” aggiunge un elemento non di poco conto: la voce della tastierista Nicoletta Nardi, che, a differenza del particolare timbro nasale di Posho, è abbastanza ordinaria e forse si sarebbe potuta limitare ai cori piuttosto che a parti soliste di un certo spessore. “Wait, wait, w” fa parte del lotto migliore del disco e viene utilizzata benissimo la voce femminile tra coretti e backing vocals davvero di spessore. La successiva “Vacuum Queen” è il primo segno che tante idee non sono sinonimo di tante cose belle. Purtroppo il pezzo è un lento ed inesorabile declino nel nulla musicale: lenta, noiosa, amorfa. Il disco si risolleva con la muscolosa “Standing Wave” in cui le distorsioni ed una certa grinta nel cantato rimandano a certo rock alternativo di qualità tra una strofa azzeccatissima e una tensione emotiva sempre al top. Uno dei pezzi più belli dell’album è anche, forse, quello più estraneo al resto della raccolta:“Mangroves” mi ricorda gli ultimi Low, tra chitarre rarefatte, elettronica ultra-minimale e una linea vocale a due voci all’unisono praticamente perfetta. Pur non essendo quest’ultima affatto scontata resta in mente e funziona alla grande. Dopo la dolce “Mangroves” si torna in territorio più potenti: “I Want a New Dance” è energica e veloce (poco più di due minuti di durata). Il disco si conclude con “This Song Is Not Mine” che nel giro di sax mi ricorda qualcosa dei Morphine, mentre tutto il resto è psichedelico, spezzato, prog e potente. Le conclusive “Sugar Lumps” e “sleep__” non rendono giustizia alla bravura della band, risultando lente e stucchevoli se ascoltate più di una volta, soprattutto la traccia di chiusura che è una monotona suite ambient.
A conti fatti “Blunk” è un disco dai mille volti: alcuni bellissimi, altri schizofrenici, altri ancora poco convincenti. Tutto sommato, i pezzi eccellenti sono in maggioranza rispetto a quelli mediocri, quindi il risultato è buono, ma con un maggior attenzione in sede di selezione dei pezzi da mettere nel disco staremo parlando di uno dei lavori migliori del 2016.
(Aaron Giazzon)
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