Pescara brucia. Quest’estate Pescara sembra pervasa da una luce diversa, sarà il riflesso di bandiere e striscioni bianco-celesti per la promozione in serie A del Delfino, o sarà per l’arrivo improvviso del vero caldo estivo (santo e benedetto, diciamolo, per risvegliare un mood vacanziero che ancora non trovava giustificazioni nel farsi sentire). Ed è in questo contesto di allegria che aleggia per le strade che torna per la tredicesima volta l’IndieRocket Festival, nella location che ormai possiamo chiamare a tutti gli effetti la sua “casa”, ovvero il parco dell’ex-caserma Di Cocco, nel bel mezzo della città e della zona universitaria.
Le novità per l’edizione 2016 non sono mancate, a cominciare dalla collaborazione attiva con il Collettivo Pepe che ha portato tutta una serie di attività culturali nei giorni precedenti al festival principale (che esistevano anche nelle edizioni precedenti, ma mai tanto ampie come stavolta), includendo musica live, proiezioni cinematografiche, laboratori di musica per bambini, di scrittura creativa, di arti visive, mostre e workshop di fotografia e addirittura un corso di produzione musicale con l’utilizzo del software Ableton Live (i docenti designati sono stati Domenico Pulsinelli e Umberto Palazzo; sì proprio Umberto Palazzo de Il Santo Niente). Un festival a tutto tondo dunque, che vuole sfruttare a pieno la sua localizzazione nel parco cittadino, sempre fruito dai residenti di ogni età per tutta la durata dell’evento. Un’altra novità degna di nota quest’anno è stata la chill area, pochi passi dietro al palco, dove negli intermezzi tra un live e l’altro si alternano vari dj d’accompagnamento, alcuni che sono delle vecchie conoscenze dell’IndieRocket come Ben Green dei Civil Civic e Go Dugong, già su questo palco nella passata edizione, altri invece che sono nomi che animano le serate nella zona un po’ tutto l’anno come Guglielmo Mascio e Al Miseri. In ogni caso un modo per diffondere nello spazio di tutto il parco l’atmosfera del festival con le sue attività e per radunare idealmente, tutti i fruitori dell’area, occasionali e abituali, bambini sui giochi, anziani sulle panchine e ragazzi sbracati sul prato, senza emarginare nessuno. Quanto più possibile, un festival inclusivo.
E quale modo migliore per includere e raccogliere se non quello di presentare una line-up ricca e diversificata? Sì perché anche cercando di inquadrare i live nella classica impostazione per serate tematiche del festival (venerdì rock, sabato dance/elettronica e domenica sperimentale), in realtà l’offerta è data mescolando un po’ di più le carte questa volta. È così che il venerdì sera, a fianco agli headliner tra psichedelia e blues rock, spunta fuori il ritmo latino-americano della cumbia peruviana; come il sabato tra i suoni più spigolosi e spettrali dell’elettronica fa la comparsa il calore dell’afrobeat e dell’hip-hop; allo stesso modo della domenica, con la scena divisa tra dj set e live, non si può dire che un filone prevalga su altri. Tutto questo è possibile grazie alla varietà della selezione, chiaro, ma anche grazie al livello altissimo di tutti gli artisti, che ci hanno regalato una successione ininterrotta di esibizioni stupende, ognuna magica a suo modo, ognuna con la sua luce e il suo colore, ognuna in grado di rendersi indimenticabile.
Le serate iniziano presto, come sempre, prima che scenda il sole e che si animi la cucina per la cena. Il primo giorno, venerdì 24, nel caldo torrido tra zanzare e moscerini, si comincia alle 7 con i Weird Black, band romana che ci porta in un mondo fatto di kimono improbabili e chitarre rattoppate. La band all’esordio con We Were Never Being Boring, apre l’evento con il suo sound che si rifà alla psichedelia britannica anni ’60 ma in una chiave acustica decisamente lo-fi, che ci ricorda tratti del primo sgangherato Beck. Un sound decisamente adeguato alla situazione che sta prendendo piede in un parco ancora frequentato da tanti bambini spensierati, padroni a spasso con i loro cani sotto il cielo terso e rosseggiante che finalmente ci concede di liberare l’estate che dentro di noi tutti aspettavamo. Dopo i Weird Black, è la volta dei John Canoe, sempre di base a Roma sempre all’esordio (con Bomba Dischi) che spaziano dall’acid rock al surf garage. I tre ragazzi del Testaccio prendono il nome da un festival musicale tradizionale delle isole Bahamas e sono i vincitori del contest Sziget & Home Sound Fest 2016, che li porterà quest’estate anche sul famoso palco di Budapest. Insomma, le band sono all’esordio ma molto promettenti, purtroppo penalizzate dall’orario (ricordiamolo, ancora il pubblico “vero” del festival è pochino) ma chi c’è apprezza e la presenza sul palco è più che convincente.
Proprio mentre siamo lì a mettere in ordine i pensieri a crogiolarci nel pensiero del surf e del garage psichedelico appena sentito nel buio in arrivo, ecco che arriva come un fulmine a ciel sereno, Rolando Bruno y su Orquesta midi, anzi, se esistesse dovremmo usare un’espressione contraria perché più che fulmini ha portato un nuovo sole, con i colori del Sud America. Il suo passato è garage punk con i suoi Los Peyotes, ma da quando ha lasciato l’Argentina per l’Europa ha iniziato una ricerca sui suoni tradizionali principalmente della Cumbia peruviana e adesso da solo gira l’Europa con la sua one-man-band ad esportare la sua visione della tradizione che ovviamente risulta influenzata dal suo importante passato garage-psichedelico. Quello che noi vediamo è uno show davvero unico, perché non pensavamo di ritrovarci in un festival di latino-americani, ma questa cumbia è davvero trascinante, molto più divertente di quello che ci si poteva aspettare dal folk sudamericano come ci se lo immagina. È qualcosa di pop, di allucinogeno, che travalica i generi e ogni chiusura mentale e ci fa ballare tutti. Un piccolo angolo di paradiso latino che riempie la pista e ci catapulta verso il clou della serata.
Abbandonato il sole caldo sole caraibico, scende la notte con la Squadra Omega e il suo mondo space rock a colpi di sax, percussioni e synth. La performance inizia prendendoci per mano dolcemente e facendoci poi scivolare un po’ alla volta nelle pieghe sferzanti di free jazz e progressive. E quando la sera si fa tarda, è il momento giusto per l’entrata in scena degli Psychic Ills e dei loro racconti blues, country con un occhio dream che trascende i confini del rock e riporta tutto a una dimensione intima e, se vogliamo, spirituale. Il loro live ci prende e ci porta nelle infinite praterie disegnate dal carisma del frontman Tres Warren e dall’eleganza di Elizabeth Hart sulla tastiera di Brent Cordero. Una pausa nelle riflessioni per poi scatenarci nell’energia dei White Hills, psychrock dalla mente della coppia Dave W. ed Ego Sensation. Un set ad alta tensione in cui ci propongono il loro ultimo lavoro “Walks for Motorists”, frutto di una ricerca intensa portata avanti negli anni in studio e sui palchi, mix tra i suoni più graffianti e duri di kraut rock, post punk e art rock e gli echi più eterei della psichedelia.
Insomma, con una premessa pomeridiana come quella che avevamo visto, eravamo sicuri che gli headliner della serata sarebbero stati di altissimo livello, e le nostre aspettative non sono state deluse. Davanti a noi si sono manifestati i frutti di anni e anni a calcare i palchi di mezzo mondo, abbiamo apprezzato band prolifiche e che con una presenza scenica di tutto rispetto. Per un festival che non rientra nel filone dei “grandi festival estivi”, non si può non notare l’impegno e i risultati che porta ogni anno, e l’impegno è ripagato dalla sempre maggiore risonanza mediatica che lo accompagna (sempre più stampa specializzata si occupa di questo evento e lo inserisce tra gli imperdibili dell’estate a livello nazionale) e anche dal pubblico, la cui affluenza è stata molto buona in tutte e tre le serate, pubblico tra l’altro sempre altamente collaborativo durante le esibizioni, capace di godersi la pista senza incidenti, senza farsi male e senza sporcare.
Con questo spirito, diciamocelo, già galvanizzato dalla prima sera, ci prepariamo ad affrontare un’altra torrida serata adriatica sabato 25 giugno. 35 °C quando il sole se ne sta lentamente andando, e tra la gente lì per caso e lì apposta, si fa largo sul palco Stregoni, un progetto musicale e sociale che vede la collaborazione di Johnny Mox e Above the Tree con dei rifugiati e richiedenti asilo dai centri d’accoglienza d’Italia per creare musica che unisca generi e persone, partendo proprio dagli smartphone dei migranti, dalla loro musica, da ciò che si portano dietro dalla loro terra. Il risultato è un live unico, in cui i racconti di chi sogna l’Europa si materializzano a suon di hip-hop, psichedelia, mischiando l’elettro-tribalismo che avevamo già visto nell’edizione passata con Above the Tree con i ritmi afro e a tratti gospel di chi spera e ce la sta mettendo tutta. Uno spettacolo commovente, che ci ricorda che i confini, se non ci si pensa, non esistono, e che speriamo che questo progetto riesca nell’intento che si è fissato: portare questi ragazzi oltre i confini attraverso il continente e regalargli il sogno per il quale hanno rischiato la vita.
Il sabato è il giorno delle uscite, sempre e comunque e già dalle prime ore si raduna una discreta folla sotto il palco ad assistere agli spettacoli (comunque crescendo rapidamente verso e dopo cena), e ne siamo felici perché anche gli artisti di stasera meritano tutta la nostra attenzione. Dopo il viaggio reale e immaginato del live di Stregoni, è il momento del viaggio virtuale e sognato dei Platonick Dive, trio livornese dell’elettronica sperimentale post-rock attivo da sei anni, che già ha portato la sua musica a fianco di grandi artisti (quali Blonde Redhead, Four Tet e This Will Destroy You) e niente meno che al prestigiosissimo SXSW. Il loro lavoro si basa sulla ricerca di una “terapia personale”, per loro stessi e per loro stessa ammissione, così ci presentano una commistione di elettronica analogica e digitale e rock onirico ed evocativo da un’esecuzione movimentata sul palco e anche in pista, con il pubblico che aumenta man mano che si fa buio, e noi che non possiamo far altro che lasciarci trasportare.
E quando il buio è ormai arrivato e il parco è ormai tutto un andirivieni di fritti tra i tavoli, ecco che si presenta un altro episodio fuori dalle orbite del “tema della serata” (ma neanche poi così tanto): i Batuk insieme a Spoek Mathambo, al secondo tour in Europa e per la prima volta in Italia, di passaggio a Pescara prima di aprire per Santigold a Berlino. L’obiettivo dei sudafricani Batuk è usare la musica house e dance per connettere le varie culture, lingue e musiche africane, per questo hanno avviato già diverse collaborazioni multidisciplinari con altri artisti sudafricani, dall’Uganda e dal Mozambico. Sul questo palco il mix è una bomba: non so come riescano a cantare, ballare, muoversi, col caldo che fa e con addosso quei coloratissimi cappotti, noi cominciamo allora a respirare un po’, e il loro intervento è quello che ci serve per ridarci un po’ di sprint per proseguire la serata, e per radunare la folla nel passaggio dal pomeriggio alla sera.
Dopo esserci rifocillati con il vibe africano dei Batuk, salgono sul palco e ci portano la ventata di gelo definitiva i K-X-P da Helsinki, La Stanza Nera da Manchester e The Field da Stoccolma. I K-X-P si presentano incappucciati con le loro due batterie e il loro sound profondo che mette insieme la techno, la dance, il post-rock e la house più esoterica e dark in un insieme che ha faticato anche a detta del loro frontman a trovare il suo pubblico perché è sempre “troppo qualcos’altro” per chi ama “qualcosa”. Oggi però nella sperimentazione e senza ingabbiarsi nei generi, sta trovando la sua strada e il suo filone a seguito, e questo live ne è la dimostrazione. Dopo questo tuffo nell’underground, il viaggio continua con il live esclusivo de La Stanza Nera.
La Stanza Nera è il risultato dell’incontro tra i dj e produttori inglesi Sean Canty e Andy Votel e il loro set non è solo live music, ma anche visual. Uno spettacolo sorprendente per la varietà di suoni e fotogrammi che si alternano, video loop vintage, espliciti e cupi accompagnano una carrellata infinita di percussioni campionate legate da intermezzi punk e crossover, e fili di EDM, industrial e noise a tratti. Un flow con momenti che potremmo definire anche disturbanti e che sulla folla hanno il magico potere di creare un effetto da silent party: tutti ballano, nessuno sta fermo, ma ognuno balla isolato\ col suo ritmo, coi suoi passi, nella sua totale individualità. Segno che la musica è bella anche per questo, perché ognuno la vive con la propria interpretazione, ognuno la mette nella propria vita e vediamo che succede, come ci prende….unisce, ma non necessariamente creare una massa univoca, anche unire nelle proprie individualità che mettono in comune ciò che possono condividere. Il parco è anche questo.
Dopo un’ora e mezza abbondante risaliamo dal salto nel vuoto che ci hanno offerto i mancuniani, e sale in cattedra il Grande Maestro della minimal techno: the Field, al secolo Axel Willner. Come la brezza fresca della notte si alza dal mare, dal palco emergono i suoi suoni glaciali che portano tutto l’appeal dance del cocktail di shoegaze ed elettroniche. Ora è davvero sabato sera, ora davvero si balla, ballano tra la folla anche i Batuk finalmente in borghese, e il sabato sera in pista non c’è un’età, c’è solo una folla che si diverte. E a diamo appuntamento a tutti a domani, domenica 26.
La domenica è sempre il giorno più difficile del festival: è il giorno prima del lunedì, quindi bisogna chiudere un po’ presto, ed è il giorno in cui più facilmente si va in spiaggia, si fa tardi, il pomeriggio va per le lunghe…..ed è per questo che la domenica dell’IndieRocket Festival è il giorno degli irriducibili e dei più curiosi, nonché il giorno in cui ci si può prendere più libertà con la line-up proprio grazie al pubblico solitamente più aperto del weekend. Quest’anno la sperimentazione domenicale è affidata all’organizzazione di Débruit, che ha curato la parte musicale dell’ultimo giorno, forte della sua (bellissima, per noi) esperienza sul palco dello scorso anno. E si comincia così con un lungo djset sulle collinette del parco, per deliziare gli avventori del pomeriggio che sono molti di più degli altri giorni, contrariamente a quanto si è portati a pensare. Nella chill area si alternano lui e Go Dugong fino a serata inoltrata, con l’afrobeat surrealista che già avevamo assaporato nell’edizione passata, insieme ad altri ritmi latini e dancehall e dub per l’italiano, poi più funk orientaleggiante e dance indiana per il francese, e si scivola ancheggiando verso gli ultimi live di questa tredicesima edizione.
I primi a salire sul palco sono i Flamingods, band di polistrumentisti dal Bahrain che, considerato il tempo che hanno passato a montare tutti gli strumenti e a smontarli a fine performance, avrebbero dovuto suonare molto di più per ammortizzare i tempi tecnici. Ma la fatica ha reso ancora più prezioso il loro live, un incontro di culture e suoni, tocchi elettronici tra strumenti provenienti da tutte le parti del mondo per proporci la loro ultima fatica “Majesty” uscito a gennaio; colorato e rinfrescante, ricordano a tratti i Tame Impala ma più chill-pop e il vibe è decisamente quello giusto per scansare la tristezza della fine imminente, in un parco in una torrida sera d’estate.
Il triste compito di avviare i saluti finali spetta a Larry Gus, pseudonimo dell’artista greco Panagiotis Melidis. E così salutiamo questa edizione con un’esibizione sorprendente, in cui Larry tarantolato nella sua postazione canta, suona, controlla l’elettronica, e poi vanno sempre aumentando danze improbabili sopra e sotto al palco. Ritmi frenetici e melodie stridenti creano un caos gioioso che prende la forma dei vari anfratti folk del Mediterraneo e delle percussioni caraibiche passando per momenti garage e echi di Beach Boys. Un’escalation di follia che nel momento estremo del sangue in fronte autoinflittosi a colpi di microfono ci dà l’idea base del set: come “l’art pour l’art”, la performance per la performance. La gioia definitiva arriva con la citazione di Battisti, suo grande amore, cantato a memoria (un po’ biascicato, ma dritto come un treno), noi non capiamo proprio più niente, forse l’euforia ci ha drogati, ma è proprio lui che sta cantando, come un matto. Forse gli serve per riprendere fiato dato che in questo frangente sta solo cantando e non suonando, picchiando la batteria, salendo-scendendo-salendo-scendendo dal palco….
E così, anche se la fine è sempre un po’ amara, i sorrisi volano ancora a lungo tra il pubblico che sembra ballare all’infinito e quello che se la ride commentando “madò….ma è pazzo proprio…” e simili. È un po’ una metafora questa esibizione, è un po’ l’attitudine di noi mediterranei che stiamo sempre a fare cose, sempre in movimento, e qualcuno che ci vede se la ride un po’ ma alla fine portiamo sempre sorrisi ovunque andiamo. Allo stesso modo anche quest’anno ci portiamo a casa una mare di sorrisi e di colori, di suoni, delle belle (bellissime) scoperte, grazie a una selezione di artisti davvero di altissimo livello a uno staff che e l’ha messa tutta per organizzare tutto al meglio e un pubblico che ci ha davvero scaldato il cuore con un’affluenza ottima e grande partecipazione. E così ci salutiamo, ci diamo appuntamento per ora alla Lampara mercoledì 29 per il gran finale con gli Hugo Race Fatalists (che poi sarebbero Hugo Race con i Sacri Cuori), un finale poetico ed emozionante, sulla spiaggia, come le migliori feste d’estate che si rispettino, e con il cuore pieno di emozioni e di rinnovata fiducia nella bellezza che può creare l’uomo, lasciamo che la vita quotidiana riprenda il sopravvento nelle nostre esistenze, e che l’estate ci investa con la sua carrellata di eventi (in Abruzzo saranno tanti quelli musicali, primo fra tutti ricordiamo il Siren Festival a Vasto dal 21 al 24 luglio). Speriamo di fare il pieno di gioia di vivere che ci basti per arrivare tutti interi all’anno prossimo.
(Carla Di Lallo)
Foto: Andrè Jansen