Nel 2012 Roberta Gulisano ha esordito con un album, Destini coatti, coniugato tutto al femminile, con una serie di sfortunate protagoniste, vittime doppie dei mali contemporanei, dall’anoressia al femminicidio, dalla violenza allo sfruttamento, dal suicidio alla fuga, tutte accompagnate però da una vena musicale variegata e quasi allegra, come ad alleggerire quei temi tanto ansiogeni e grevi. Oggi Roberta torna ancora alle sue donne, o meglio alla donna, ferita da questa imperfetta comunità, ma questa volta senza mediazioni, senza leggerezze musicali, senza ritmi che diano sollievo ai temi trattati.
E c’è una rabbia manifesta che monta stavolta, in un combat folk asciutto, disossato, inquieto. In questo lavoro essenziale, per sottrazione, non ha potuto che rivolgersi a un genio dell’isola, condividendo il progetto con quello che è, da anni, il maestro della musica impegnata siciliana, Cesare Basile, autore di album fondamentali (del 2013 la Targa Tenco per l’omonimo), e produttore di altri non meno importanti, come quello di Salvo Ruolo Canciari patruni un è lbittà.
Il risultato è un album più siciliano, per suoni e voci, per toni e ritmi antichi che, nelle mani di Basile tornano più veri pur nella rivisitazione.
Efficacissima la riduzione all’essenzialità degli strumenti usati, il piano poi affiancato dall’organo di “Disgrazia”, la chitarra acida in “Ave Maria”, il loop nella bella “Mennula amara” dove nacchere e sonagli e ferri di cavallo, usati come originali e sorprendenti percussioni, donano malia e sapori insulari. Le mandorle amare riportano alla omonima raccolta poetica, del 1905, del poeta dialettale Giovanni Formisano, vincitore di ben 7 delle 10 edizioni di un premio letterario presieduto da Luigi Pirandello. Che poi Formisano è anche l’autore delle liriche del famosissimo brano “E vui durmiti ancora”, brano a sua volta legato a un episodio singolare durante la prima guerra mondiale. Sembra che un soldato siciliano in Carnia, nel 1916, una sera, preso dalla nostalgia di casa, imbracciasse la chitarra per far risuonare tra le linee del fronte questa bella canzone. Gli spari si diradarono fino a cessare del tutto e alla fine dell’esecuzione un applauso partì dalla trincea austriaca. Per quella sera, per quella canzone, nessuno su quel tratto di fronte morì. È Michelina De Cesare la protagonista di “La brigante”, alla macchia dal 1862 al 1868, come compagna del brigante Guerra e come capobanda. Fu tradita da un cugino, catturata, torturata e uccisa, denudata e fotografata a monito per tutti i rivoltosi ancora in attività. Era una donna di piacevole aspetto con un debole per fotografie per le quali si curò sempre di indossare bellissimi costumi tradizionali, senza mai dimenticare lo schioppo.
I brani sono nove violente preghiere e ingiurie, livide litanie e bestemmie, arrabbiate suppliche e d esortazioni, furiose giaculatorie contro un mondo dove non basta più la denuncia, dove il male non fa più clamore, dove tutto resta immobile, inamovibile, senza più forza per protestare, dove tutto langue, e piano piano muore, e si perdono valori e saperi millenari. “La mattanza” è nella mente, nella riduzione svilente dell’uomo a consumatore della sopravvivenza.
Vecchia storia, novi paroli,
pupi e pupari tiranu a campari.
Parrati e zittuti, chiumazzi e sbannuti,
sacca cu nuci, senza ittari vuci¹.
Notti scura, senza lu suli,
notti ‘nnuccenti, senza diri nenti.
Genti ‘nchiusa sutta li casi,
campagni ‘nziccuti, omini partuti.
Quannu a notti s’avvicina tu nun po’ scappari,
quannu a strata è a ‘cchianata tu nun po’ turnari,
quannu vidi cielu niuru, quannu vidi mari scuru,
quannu vidi negghia, tu camina e ‘un ti scantari.
sacchi con noci, senza cacciare urla¹
Notte scura, senza alcun sole, / notte innocente senza dire niente, / gente rinchiusa dentro le (proprie) case, / campagne inaridite, uomini partiti. / Quando la notte si avvicina tu non puoi scappare, / quando la strada è in salita, tu non puoi tornare (indietro), / quando vedi cielo nero, quando vedi mare scuro, / quando vedi nebbia, tu cammina e non aver paura.
L’ultimo brano “Padre Muostro” è la denuncia della costruzione del centro di comunicazioni satellitari a Niscemi, a prescindere dalla volontà del popolo siciliano.
(Alberto Marchetti)
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