Andare ad un concerto dei Massive Attack è un po’ come quando da ragazzini arrivava il luna park in città: La skyline delle attrazioni riempiva l’aria di luci coloratissime che invogliavano a provarle tutte almeno una volta. In genere si dava priorità alle giostre più pericolose, così da avere il tasso di adrenalina alle stelle. Tutto quel luccicare afrodisiaco nascondeva alla vista – mica tanto – la Casa degli Orrori, generalmente dipinta con personaggi inquietanti, tra il kitsch e il bizzarro; dopo essere usciti da quel posto buio tutto sembrava un po’ meno bello, quasi decadente e minaccioso. La voglia di divertirsi per scacciare via quel ricordo non scemava ma ormai il tarlo si era insinuato dentro e non potevi fare a meno di tornare con la mente a quel posto tetro, a quei personaggi che saltavano fuori dal buio, fluorescenti e avvolti da finte ragnatele. Spavento ed eccitazione si mescolavano nel sangue nella stessa misura.
Ecco la band di 3D e Daddy G fa lo stesso effetto, ogni volta che si assiste ad un concerto del progetto musicale oramai giunto quasi al suo trentennale (nel 2018 per la precisione). Sei lì a farti investire dalle bordate di elettronica, le cui canzoni in sede live diventano molto (ma molto) rock, e grazie ai pannelli posizionati alle spalle della band appaiono informazioni di carattere geo-politico che ti scombussolano dentro, trasfigurandone i contorni sonori: elenchi della spesa farmaceutica si inanellano su “Beat Box 001”; marchi di corporation e bandiere di Stati sparati alla velocità della luce in modo quasi subliminale (“United Snakes”); il numero di richiedenti asilo politico e morti a causa di guerre e migrazione (“Girl I Love You”); Notizie di cronaca degli ultimi giorni mischiate ad eventi di futile gossip (sulla splendida “Inertia Creeps”); numero di monumenti e biblioteche distrutte a partire dal 600 A.C. (durante la tumultuosa “Safe From Harm”). L’impegno del gruppo di Bristol a divulgare e a sensibilizzare i fan viene avvalorato dalla cooperazione avviata con L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), e se da un lato sul concerto cala di tanto in tanto una pesante coltre di pessimismo, un senso di impotenza che immobilizza, dall’altro ci si rende conto che la condivisione ed il supporto alle associazioni che si occupano di queste problematiche sociali potrebbero farci sentire meno soli e inefficienti. Il luna park però deve dare spettacolo e far divertire, quindi durante “classici” e rivisitazioni ci sono semplici giochi di luce: “Psyche” ha un arrangiamento liquido, sembra quasi di essere immersi nelle profondità marine mentre “Teardrop” diventa più minimale e crepuscolare. Il cantato femminile è affidato quasi esclusivamente a Martina Topley Bird, ormai presenza fissa degli ultimi tour – come fissa è la presenza di Horace Andy nelle tracce in cui è coinvolto -, ad eccezione di un paio di pezzi cantati da Deborah Miller (“la già citata “Safe From Harm” e il classico dei classici dei Massive Attack “Unfinished Sympathy”, unico pezzo risalente agli esordi, suonata come ormai da anni a chiusura di concerto).
Menzione a parte va fatta per gli inediti pubblicati qualche settimana fa con il titolo di Ritual Spirit, primo di due EP in cui Del Naja e Grant Marshall si dividono brani e produzione, il primo affidato al musicista di origini campane contiene 4 brani, il secondo uscirà nei prossimi mesi ed insieme andranno a formare il sesto disco in studio la cui uscita è prevista per la fine del 2016. La prima canzone presentata live è quella che dà il titolo al nuovo lavoro discografico: cantata da Azekel “Ritual Spirit” catapulta l’ascolto nelle zone d’ombra e inquietudine di 100th Windows ed Heligoland. Il cantato delicato, di impostazione quasi soul, si intreccia ad un giro di chitarra “dark” da vertigini, beats, claps e percussioni donano un movimento sensuale all’intera composizione. Durante l’encore arriveranno “Take it There”, una sorta di Ritorno al Futuro musicale, con l’apporto di Tricky ad accompagnare con la sua voce indolente quella che si aggiudicata la palma di migliore traccia del plot in quanto richiama al trademark sonoro dei Massive Attack. Sarebbe stato bello vedere comparire dalle quinte Adrian Thaws, avvolto nella sua consueta nuvola di fumo “tossico”, invece dobbiamo accontentarci di Daddy G. Qui i messaggi proiettati sul pezzo sono gli unici ad avere una parvenza di speranza e ottimismo. A seguire salgono sul palco gli Young Fathers (trio hip-hop sperimentale scozzese di belle speranze vincitore del Mercury Prize 2014 con l’album Dead) i quali hanno collaborato alla stesura di due brani: il primo, “Voodoo In My Blood” è tutto un vorticare di elementi percussivi schizofrenici in combutta con il cantato/rappato dei tre musicisti. L’altro inedito, “He Needs Me” (non presente su questo Ep), sfoggia e inasprisce più della canzone precedente la sezione ritmica, qui violenta e convulsa, che si fa linea guida per le tre voci. Resta fuori dai giochi il brano che più di tutti catapulta i Massive Attack in quei paesaggi da futuro distopico e spaventoso intravisti in altre occasioni. Cantato da Roots Manuva “Dead Editors” mostra quanto personaggi di spicco quali Burial, Kode9, Four Tet siano stati influenzati e a loro volta influenzano i pionieri del trip hop made in Bristol.
Il Luna Park si spegne e quando ciò accade si resta sempre con quel misto di sensazioni contrastanti che si muovono in corpo: una malinconica euforia porta a ripensare all’esperienza appena fatta e a quando ritornerà di nuovo a dipingere la città di luci seducenti. Il corpo inizia a svuotarsi dalla musica assorbita attraverso i pori (nonostante i volumi siano stati un po’ bassi rispetto alla potenza di esecuzione dei brani), la testa invece incamera le informazioni sparate durante il live set. Lo spettacolo in funzione dell’impegno sociale serve a non girarsi troppo, o a non girarsi più, dall’altra parte, e in questo i Massive Attack sono tra i migliori giostrai in circolazione.
(Antonio Capone)
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