Sesto capitolo dell’interessante viaggio di Orlando, artista non proprio di primo pelo, che il senno non l’ha perduto anche se a tenerlo a bada, tra le ondate laterali che la vita assesta con improvvisa forza, si fa sempre più fatica. E allora bisogna fare voli pindarici e, almeno nella testa, cambiare mari, venti e visioni, arrivando in quelle acque dal clima tropicale e dai ritmi latini abbastanza vicini per consuetudine musicale, e abbastanza lontani per longitudine, da sedare le tempeste interiori, e consentire lo sguardo pacifico di una giusta filosofica distanza, su azioni, incontri e quotidiani accadimenti.
Lì, calata l’ancora e indossato lo scafandro, bisogna allora immergersi fino in fondo, tra ombre che virano all’azzurro e mobili lame di luce, per trovare, di tanto vagare, ragioni e sentimenti. È una meditazione attenta e precisa quella del cantautore romano, di lunga gestazione (l’ultimo album “Inusitato” risale al 2012), a scandagliare i sentimenti provati, tra relitti e ferite, cime usurate e incrostazioni di protezione, fino a quelle che, pur non essendo che parziali, rappresentano le piccole rassicurazioni necessarie, gli incompleti e personali frammenti di una possibile verità. Perché l’illuminazione, quel frammento di “Idea”, sembra sempre lì a portata di mano, e ti sembra d’aver capito tutto, un attimo, ma già sfugge il momento, “…e l’idea già si veste, non si può fermare, resta solo una nuvola a raccontare…”
L’“Avviso ai naviganti” scivola a pigro tempo di beguine sulle incognite dei giorni, convinti sempre che domani cambierà, perché “…la speranza è il motore di quest’avventura / che allontana il respiro di questa paura / che ti prende alla gola e poi se ne va…”
Con la sontuosità di una sonata il piano di Primiano di Biase introduce la lirica “Tutti i Posti”, ricca di immagini malinconiche sulle bellezze che sfioriamo senza possedere mai, e quel mare di relazioni che coniugate al passato spesso si affievoliscono nei ricordi, lasciando note di mandorle amare.
È con la fisarmonica che questa volta il bravo Primiano accompagna “La vita è questa qua”, seduti ad aspettare chi non arriverà, e poi a correre dietro l’inutile, sorvolando sulle scomode e destabilizzanti verità.
Tanto poi la lenta e avvolgente “Passione” ci riprenderà comunque, e “Cercherai un sospiro pungente / che cancella errori e promesse della strada di sempre / Troverai pane duro e coraggio / per scoprire che il fiore più bello non sboccia di maggio”.
E chi non ce l’ha “Il giorno sbagliato”, tra quelli “segnati dal vento, dalla smania” che uno si porta dentro, ed è inutile tornarci sopra, che anche se ti fermi non è mai finita, e si continua ad andare.
E a segnare la vita “Ci sono amori”, ognuno certo di essere quello giusto, amori che si ripetono senza essere mai uguali, che ci lasciano cicatrici sempre impreviste e alla fine indispensabili, perché senza amori no, proprio non possiamo stare.
Tra blues e jazz ecco “Prendo solo l’essenziale”, un esempio di cosa sarebbe meglio portare con se in questo viaggio che dura una vita, non senza una certa dose di autoironia: “…prendo solo quello che mi basterà, di superfluo ce n’è tanto, forse ad altri servirà, / lascio il resto, non ho tempo di guardarmi allo specchio, / scoprirei solo un bambino con la faccia già da vecchio…”
Sembra un classico senza tempo la bossa “Raccontandoci”, capace di rendere vive alcune scene di intima tenerezza, “…mi raccontavi della speranza del rimpianto / dell’incertezze dell’incanto / di sensazioni mai provate di calendari senza date / di fiumi che non vanno al mare e di ricordi da inventare / prendevi fiato ed un sorriso / ti trasformava gli occhi e il viso…”
Dopo l’allegra “Già passato”, un rivolo d’acqua fresca sulla scorza riarsa dal sole, ecco “L’uomo che sussurrava ai carretti”, adattissima all’Italia decadente di oggi, tra mafie che proliferano e partiti senza più idee, perché è inevitabile uno sguardo a questi tempi di abili venditori di illusioni, speculatori dei sogni e dei bisogni, gli spregevoli del tempo, arroganti trasformisti e ignoranti adulatori, orgogliosi pieni di pregiudizi sempre sul carro del vincitore ma mai troppo in vista, senza più l’onesta concorrenza di una volta.
Orlando Andreucci ha preparato con cura questo la vita la morte l’amore la sorte (scritto così, senza maiuscole e segni d’interpunzione, perché tutto avviene in modo caotico, e siamo noi, col senno di poi, a cercare il bandolo di una matassa che forse il bandolo nemmeno ce l’ha), nuova tappa del suo peregrinare, lui che conosce fin troppo bene il suo mare, l’ha vissuto e respirato, osservato e affrontato, ricavando, dalle rughe che il salso fervore di vivere gli ha cucito addosso, l’inchiostro indelebile delle emozioni.
E mi viene in mente la frase del narratore ne “Il the nel deserto”, che declama: “Poichè non sappiamo quando moriremo si è portati a credere che la vita sia un pozzo inesauribile. Però tutto accade solo un certo numero di volte, un numero minimo di volte. Quante volte vi ricorderete di un certo pomeriggio della vostra infanzia? Un pomeriggio che è così profondamente parte di voi che, senza, neanche riuscireste a concepire la vostra vita. Forse altre quattro o cinque volte, forse nemmeno. Quante altre volte guarderete levarsi la luna? Forse venti… Eppure, tutto sembra senza limite.”
Ah, dimenticavo, ha prestato il suo talento, con misura, tecnica e intelligenza, oltre al già citato Primiano, anche l’ottimo Simone Talone alle percussioni, uno che sa come appoggiare la ruvida voce del nostro diversamente giovane cantautore.
(Alberto Marchetti)
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