L’Irlanda del Nord (precisamente Derry) questa volta non ci consegna ricordi di guerre insulse e razzismi di religione in bianco, ma tenere creature che si affacciano nelle scene cantautorali internazionali, come questa fragile poetessa urbana Bridie Monds-Watson in arte SOAK, appena diciottenne e in piena vena creativa di un soul-folk solitario, qui col suo primo lavoro discografico Before we forget how to dream, un songwriting che vive out borders e dalle credenziali malinconiche, un raggio di luna innestato in riverberi morfologici che ricordano tanto una ribelle e “maschiaccio” Rita Tushingham del film Sapore di miele dell’inglese Tony Richardson.
Quattordici brani che raccontano, elencano e rivivono storie, infanzie, amicizie nate e scomparse nel mondo dello skateboard e quella straordinaria volontà di essere lontana mille miglia da quei luoghi dove pare che la vita ti dia quasi nulla se non disoccupazione, sogni da colorare senza colori e crescere tra macerie mentali e fisiche. L’artista SOAK, a dispetto del suo – appunto – ghigno d’impatto – si presenta come una interprete sofisticata e sognante (“B a nobody”, “Blud”, “Sea creatures”, “A dream to fly”), un fil di voce sapiente e immaginazioni di spazi eterei (“Garden”, “Shuvels”) che introducono pensieri calmi e viaggiano lungo tutta la struttura dell’album, un ascolto dal profilo alto, notturno e scaldato solamente dalle brezze filtrate attraverso i propri aneliti.
Arrangiamenti scarni, qualche arco a rifinitura e tantissime albe da contornare (“Hailstones don’t hurt, Reckless Behaviour”), poi se vi rimane ancora un tot di spirito da investire fondetevi nell’essenzialità immacolata di “Blind” e onestamente… chi s’è visto s’è visto! Diciamo in grande, MAGNIFICO!
(Max Sannella)