Paolo Pallante ha compilato un abbecedario dell’amore nel tempo del disagio, ne sviscera con calma virtù e avarie in 12 episodi, nel tentativo, difficile ma necessario, di ritagliarsi un angolo sereno, fuori attenzione, protetto. L’impresa è dura, ma Paolo l’affronta con quella leggerezza di cui parlava Calvino nelle sue lezioni americane, resta sospeso tra i mille problemi dell’esistenza senza restarne ferito, senza angosce, senza perdere, soprattutto, quella tenerezza che continua invece a tornare sorprendentemente illesa dopo ogni immersione.
Ha impiegato 7 anni per realizzare il suo secondo album, un tempo infinito per le logiche immediate del mercato, la bontà del materiale è però ricompensa e giustifica la lenta gestazione. Un tempo che è stato anche crescita personale, un ricollocarsi nel mondo e un ripensarsi che lo ha condotto a scelte forti a favore della natura, fino ad abbracciare la filosofia vegan, la cui certificazione è riportata nel packaging dell’album realizzato in carta riciclata. Senza dimenticare, infine, che Paolo è uno che la chitarra la suona davvero bene, con tecnica fine e passione, e che questo progetto è tutto suo, compresi arrangiamenti e mixaggio, e che amici prima ancora che musicisti sono i collaboratori di cui si è circondato, dal percussionista Michele Rabbia, ai fiati di Eric Daniel, Mike Applebaum, Massimo Pirone, fino ai cammei di Erica Mou e Alex Britti. La grafica essenziale del libretto è opera dell’amico artista Manuel De Carli.
Questo suo essere così beatamente estraneo ai cliché omologanti, come lo Scanio protagonista di The Repairman, si riflette con lucori e carezze nel ricco lavoro finito, nei versi misurati e attenti, nella generosa quantità di ottima musica e nella solare serenità che riesce a comunicare, pur parlando di temi pesanti, della follia diffusa all’inseguimento continuo di infelici felicità materiali, di immigrazione e problemi economici, di ricca mediocrità al comando e di difficili tentativi di comunicazione. Il segreto è certo in questo equilibrio raggiunto.
Il primo brano, molto bello, subito a catalizzare l’attenzione, è il manifesto delle intenzioni, un intimo gioco di voce e piano (suona bene anche quello!), una poesia che parte dalla follia per arrivare allo squilibrio più generale, alla fragilità umana e alla meraviglia incompresa, e non ci resta che prendere atto di essere ormai tutti “Ufficialmente pazzi”.
Dopo il divertissment de “Io sono il massimo” arriva la cantautorale “Andiamo in pace” sorretta anche dalla chitarra del virtuoso Pino Forastiere, per tratteggiare con poesia la condizione dei nuovi poveri, quelli che hanno perduto tutto per le inspiegabili illogiche dell’economia. Condizione di emarginazione condivisa da “King, un nome da re”, scaricatore ai mercati generali di Milano, armato per difesa, che nella visione della luna addolcisce l’anima nel ricordo di un amore, una madre e una terra lontana.
In amore spesso la difficoltà è proprio quella di sapersi dire l’essenziale, “Sono le parole” che, nell’abbondanza del nulla, è difficile dirsi, “le parole più belle che a volte mancano all’amore”, il non detto che non si lascia intuire. Al primo singolo, “Tutto quello che resta” del perduto amore, dal leggero ritmo sudamericano, segue l’approfondimento del tema, perché a volte non resta nemmeno il ricordo, quando la magia si spegne, e non basta ricordare “L’egoista” che si è stati. Bella la coda chitarristica, della’ottimo Forastiere che ricorda le “Aerial boundaries” di Michael Hedges.
Il valzer di “La Caroppa e Carmelo casalingo”, il cui micidiale refrain continua a tornarmi nella mente, è la storia, di qualche tempo fa, di un altro amore sufficiente, pur in assenza di denaro, tanto che lei lavora a servizio mentre lui l’attende alla fermata, con una passione inestinguibile che fa invidia. Un mondo rurale e semplice che, questa storia è ambientata a Taranto, è stato cancellato da un falso progresso che ha distrutto campagne e relazioni.
Emozionante la richiesta d’amore di “Fino alle ossa”, dalla titanica ascendenza degregoriana, una “Father and son” che sempre si ripete, una difficoltà comunicativa che spesso si risolve col tempo, con l’età, anche se quel bisogno bambino avrà lasciato comunque cicatrici profonde. Una dichiarazione d’amore limpida e delicata è invece “Per sempre”, perché quelle parole da dire vanno dette, assolutamente, e dimostrate.
E se un amore va, alla fine “Che ci importa” del mondo?
“A night in Manduria” parla senza dire, lascia immaginare diverse fasi di luce, e qui Pallante mostra tutta la sua maestria allo strumento, la tecnica sopraffine e la capacità di veicolare l’ascoltatore nei paesaggi sonori che è capace di creare.
(Alberto Marchetti)