È giovane Stefano Crialesi, ma già consapevole dell’enorme disastro causato da quel riflusso inarrestabile che non accenna minimamente a finire, di quel sonno della ragione che, come un enorme e interminabile fall out, ha annientato speranze, ridotto spazi e cancellato decenni di lotte solidali. È giovane ma con il coraggio del pettirosso di Maggiani.
In questo contemporaneo e avvilente Inverno Nucleare, non resta che resistere, affrontando le sferzate del grande freddo con la consapevolezza di essere agguerrita ma sparuta minoranza, conservando gelosamente l’essenziale che, come per il piccolo principe, oggi è invisibile agli occhi dei più. Protagonisti dell’opera prima sono quindi, molto spesso, i marginali, coloro che la storia ha travolto e continua a travolgere nell’indifferenza dei privilegiati, oppure i poeti, e chi in genere riesce a ritagliarsi un’isola di autodeterminazione, fisica o solo mentale, in mezzo a una città o procurandosi una necessaria e salvifica solitudine.
Parte con una citazione forte quest’album d’esordio, di uno dei padri dell’anarchismo italiano, quel Malatesta oggi dimenticato in un angolo del pensiero e del Verano, a rimarcare distanza disincantata da questo nostro tempo balordo, dove i nuovi mostri sorridono speranzosi di guadagnare dalle catastrofi, e si tengono aperte illegittime fabbriche di morte.
Alla lenta e drammatica “Bagdad”, dove il futuro per i due bambini protagonisti sembra davvero cosa impossibile, segue “Siamo Vento”, canto di migrazione su quegli assurdi confini della mente che solo gli uomini tra tutti gli animali continuano violentemente e ottusamente a vedere e difendere. Riff hard rock e dissonanze accompagnano “Acqua buona”, le chitarre e gli effetti di Andrea Cauduro segnano la ballata “La casa del pazzo”, poi tesa e dura, drammatica e disperatamente poetica, rarefatta ed elettrica, la storia di una tragedia mineraria del 1907, “Lettera da MONONGAH” dove le vittime, in gran parte italiane, furono le centinaia di emigranti che cercando un riscatto alla miseria in patria finirono con l’accettare condizioni di lavoro da schiavitù volontaria fino a morirne. La poesia è protagonista nel quadro parigino “Di colpa e d’innocenza”, dove tra glockenspiel e fisarmoniche del bravo Marianelli la voce di Laura Riccioluti torna per citare Verlaine:
Du houx à la feuille vernie
Dell’ agrifoglio dalle foglie laccate
Et du luisant buis je suis las,
e del lustro bosso sono stanco,
Et de la campagne infinie.
e dei campi sterminati
Et de tout, fors de vous, hélas !
E di ogni cosa, ahimè, fuorché di voi!
“Non dirò al mondo” è una delicata canzone d’amore, dolce gioco di parole che nega esistendo l’assunto, che afferma negando, una litote romantica che è evidente dimostrazione di una disinvolta padronanza della lingua. Il mare attraversa l’album, mare che rimescola e consola, è elemento mobile che mantiene, nel suo imprevedibile mutare, speranze di fughe possibili e di possibili cambiamenti, di ricerca e di incerta vitalità, e nel mare è immerso quello che certo è il brano migliore, “Ne’ solco né traccia – Racconto di un farista”, davvero ispirato, un pezzo capace di rapire cuore e immaginazione, che lascia intuire l’immensa bellezza dell’animo umano proprio nell’assenza di un confronto che non sia pacificata introspezione. Non posso che farvela leggere:
“Fuori rinforza, da scirocco a libeccio,
il fragore del tuono che scuote la torre.
L’ingranaggio del faro, che cigola a tempo,
come un arpeggio metallico di un pianoforte scordato
accompagna armonioso il canto del vento.
Tendo la mano a salutare l’ arrivo della tramontana leggera,
così abile a truccare le carte e cambiare la scena,
ora l’arancio orizzonte nasconde grandinate di stelle;
resto sul davanzale, mi verso un cognac, e continuo a fumare
Perché qui non c’è nulla che valga la pena tenersi stretto,
non si rimane marchiati dall’istinto al possesso,
e non c’è oggetto o valore
che porti al saccheggio;
della filosofia di rapina che soffia sul mondo
davvero, qui, non c’è segno né traccia,
davvero, qui, non c’è solco né traccia.
Io sono un farista
e i faristi, si sa, sono uomini soli,
assolti e lavati nell’anima da Grecale e Maestrale;
sono i reali del posto o, forse, reclusi al confino,
fottono il mondo lasciandolo solo …
al suo volgare cammino.”
(Alberto Marchetti)