Premetto: il registratore vocale, avrei dovuto accenderlo sin dai tornelli della stazione della metropolitana dove avevamo appuntamento. Perché, sin dall’inizio, è stato detto qualcosa che, mi rendo conto, sarebbe stato buffo avere ora a disposizione… Perché, con Dax, è stato subito chiaro che l’imbarazzo, più che vincerlo, avrei dovuto fingerlo. Al telefono, l’etilista sdoganata che è in me gli chiede: “Ti piace bere?”, ed è con questo mezzuccio che lo trascino in birreria; tra un sorso ed un nachos, siamo riusciti ad infilare anche una bellissima chiacchierata, che apposta non voglio definire intervista: mi sembrerebbe molto irrispettoso della naturalezza della serata.
Cominciamo: “Dax&gliUltrasuoni”, fa pensare ci sia stato tu, all’origine di tutto…
Ah, beh, certo!
E com’è che sono poi arrivati, “Gli Ultrasuoni”?
Facciamo un passo indietro. Io ho sempre suonato, fatto pianobar, scritto le mie canzoni sin da quando ero piccolino. È capitato poi di aprire un concerto con un amico, Riccardo Prinetti, con cui ho fatto l’università, che sapevo suonasse il pianoforte; con un altro compagno ancora di università, chitarrista, abbiamo messo su un primo live acustico di una mezz’oretta… Da lì in poi, avendo nel frattempo già scritto i brani de “Le Cose Che Penso Adesso”, si è deciso di mettere su il gruppo. Ho chiamato il bassista, mio cugino (Alessandro Ricotti, ndr.); il chitarrista, Francesco Pezzopane, l’ho invece trovato su myspace dietro il folle annuncio di “chitarrista offresi”, mentre è stata un po’ più ardua la ricerca del batterista (quello attuale, Alberto Paracchini, non è il primo Ultrasuono dietro alle pelli, ndr.). Ho fatto sentire a tutti i pezzi, che sono piaciuti, e siamo così potuti partire già con l’idea di fare un disco; abbiamo iniziato a fare le prove, ad arrangiare i pezzi, che poi abbiamo registrato in maniera abbastanza “casereccia”, abbastanza improvvisata, improvvida… E da lì siamo partiti. L’affiatamento si è costruito, ed è stato facile da raggiungere, perché siamo tutti molto festosi, di cuore, tutti “bravi ragazzi”, diciamo… E siamo andati avanti, nonostante le fatiche.
Anche perché non credo che ci campiate…
Io dico sempre che siamo bravi, perché con questo disco, riusciamo già ad essere quaaasi in pari: i finanziatori siamo noi cinque… E siamo già a zero! Togliendoci anche grandi soddisfazioni, gran pizze, a spese della cassa.
I vostri inizi vengono datati 2010 ma, a sentirvi suonare, sembrate un gruppo già “navigato”… La vostra intesa, fa pensare vi conosceste già da prima.
In verità no! Perché li ho proprio recuperati. Li conoscevo, sì, ma non avevamo mai suonato insieme. Ci siamo trovati subito, è vero: c’è stato, come dire, l’incastro, è nato subito un bel feeling.
E come gusti? Magari, ciò che suonate, è l’unico genere che non ascoltate!
A parte me, forse… Probabile! Gusti completamente opposti. Gli altri, hanno suonato anche metal, hanno fatto un po’ di tutto; il chitarrista è prettamente rockabilly; il bassista è molto sul rock italiano; il pianista, addirittura, tra Chopin e l’heavy metal… Il batterista, invece è matto. Ho avuto la fortuna di trovare persone a cui comunque è piaciuto quello che avevo scritto: ne hanno riconosciuto l’originalità e la possibilità di fare qualcosa di diverso.
Cogliendone poi anche lo spirito controtendenza… Abbracciandone anche le liriche, molto diverse da ciò che di solito si sente cantare, al di là della proposta musicale.
Ho avuto la fortuna di trovare persone solari di natura, come lo sono io; ho poi raggiunto -dai, adesso un po’ me la tiro!-, una sorta di maturità artistico letteraria che mi piace: ad un tratto, ho smesso di scrivere apposta per scrivere.
Le cose che racconti, le immagini: come nascono? Viene prima lo scorcio di una storia, oppure è la melodia, ad ispirarti?
Solitamente, nasce tutto abbastanza insieme. Può capitare mi venga in mente un argomento, ma perlopiù sono in giro e mi viene in mente “la canzoncina”. Al liceo, invece di prendere appunti scrivevo canzoni e facevo disegni! Certo, ci vuole un po’ di tempo perché maturi… E poi, c’è un po’ di mestiere.
Che bello dev’essere! E’ proprio talento… Un dono.
Secondo me è un po’ mistico… Un privilegio. Ed ho la fortuna di avere una base di pianoforte che mi permette di scrivere anche la musica. Ho preferito, piuttosto, approfondire lo studio del canto, con lezioni da una soprano. Ma è col pianobar, suonando e cantando, che ti fai davvero le ossa, anche per il rapporto con le persone.
Passiamo alla dimensione live, dai concerti dove siete numerosissimi sul palco ai “tour in cuffia”.
La cosa importante per noi, ed è stato così sin dal primo concerto, è che ci si diverte: questo, ci galvanizza un sacco. Suonare per il gusto di suonare, magari facendo solo studio, non fa per me; il gusto, sta nel vedere le persone cantare le tue canzoni, che siano quattro in un appartamento o trecento in un locale. Col “live in cuffia”, è successo un po’ come succede per le canzoni: un’idea mutuata da una band di cui ora non ricordo il nome… E che è rimasta lì a fermentare. Finchè poi è venuta fuori, ed abbiamo deciso di andare noi, a casa della gente, con tutta l’attrezzatura, comprese 34 cuffie wi-fi; da fuori, non si sente nulla, se non “picchiare” sulla batteria elettronica e me che canto! E tutto il casino che caratterizza un concerto, è in cuffia.
Un’ultima domanda su L’Officina Delle Mille Cose, che si occupa di tutto il vostro packaging…
Che in realtà son sempre io!
E’ la tua “pagnotta”?
In parte. Ora sono approdato in un’azienda, in maniera un po’ rocambolesca, dove faccio sempre progettazione. Resta la parte ipercreativa di riciclo, inziata in tempi non sospetti, e che mi ha dato inoltre l’occasione di conoscere tante persone che, come me, ci credevano in maniera prepotente. Purtroppo poi, come spesso accade – ed ora parte il pippone – l’aspetto filosofico della sensibilizzazione al poter fare cose fighissime con materiali che sarebbero stati da buttare (tema portato come tesi di laurea e per il quale, a suo tempo, mi hanno riso in faccia!), è andato a farsi benedire, sfociando nella moda e diventando più di facciata. Creare un’attività artigianale reale, è molto faticoso… Ed imparare a scendere a compromessi, fa parte del gioco. Ma puoi sempre fare cose belle!
Ed è all’incirca così, che abbiamo chiuso: giudicando che in tre quarti d’ora di ciacole (iniziate prima ed andate oltre), potesse esserci materiale a sufficienza. Quel che dispiace sempre, in un caso come questo, è il non poter fare arrivare anche il vortice di entusiasmo, il calore dell’anima e la gioia degli occhi.
(Sara Tramenote)
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