La prima volta che ascoltai Paolo Conte sui nastri di mio nonno avevo circa sei anni e le stelle del jazz per me ballavano velocissime, facendo dondolare capo e cuore. E quando a vent’anni potetti ascoltare quelle stesse note nel tepore di un teatro strapieno e attentissimo, le lacrime mi sembrarono la cosa più naturale del mondo. Come una risposta che arriva dopo tanto tempo, così giusta, così perfetta.
Allo stesso modo agisce il filtro adottato dal talentuoso Giovanni Succi, già voce e chitarra con i Bachi da Pietra e fondatore dei Madrigali Magri, nel suo personalissimo tributo all’Avvocato. Inciso in una cantina vitivinicola in un paesino in provincia di Asti, e uscito lo scorso 12 dicembre per la Wallace Records, Lampi per Macachi ha visto la luce grazie all’apporto di Glauco Salvo, Mattia Boscolo, e Mattia Coletti al mixer. Del suono zigzagante di Conte, non rimane nulla. Prosciugato, scarnificato, non c’è modo migliore di sposare l’animo di un grande che tradirlo a testa alta, stravolgendone l’estetica ma non la sostanza. Perché -anche se nascosti, zittiti- i baffi di Conte sono qui dentro, si muovono su scale diverse ma continuano a suonare. E quando abbassi la puntina -sì, questo disco è puro spirito analogico, scusate nativi digitali ma c’è un mondo prima di voi- una nuova storia da raccontare è lì, col muso un po’ lungo e incazzato, senza oleandri e baobab ma mai orfana di fantasia. Perché se con Conte, il testo arriva dopo che la musica ha steso l’asfalto, è con Succi che quello stesso testo si inerpica sulle note, prende una vita violenta e spietata e si fa protagonista. Il mondo di Conte ha esplorato l’inesplorabile: dal musical al ragtime, dal jazz allo swing; la canzone d’autore ha perso ogni connotazione storica per muoversi, con disincantata ironia, su universi referenziali carichi di valori universali, dove la provincia diventa metropoli e la solitudine camuffa il tentativo di sognare in grande, molto più in grande delle nostre reali possibilità. Succi, amante e cultore dell’Avvocato, ne carpisce le volontà riuscendo a districarsi da una materia difficilissima, come il Classico, come il Mito. E ne esce a testa alta, urbana o forse provinciale, vittima di quelle vicende così italiane, che sono già storia nostra, che sono memoria collettiva.
Succi ci fa così assaporare un ”Un gelato al limon” nero nerissimo, in bilico fra pulsioni elettroniche e beat semiacidi. È un lentissimo cadere sul fondo della storia, sugli atomi della bellezza strascicata di Conte dimenticandosi l’indirizzo originale. Il minimalismo cantautorale di Succi pervade ”Uomo Camion” che si fa ballata perfetta, scolpita nel marmo di una vita affaticata. I fumi della provincia echeggiano con prepotenza nel delirio trip hop de ”La Fisarmonica di Stradella” fra umidità elettrificata e intenzioni da cabaret voltaire, in preda a rumorismi pieni di nebbia. La Valle Padana si fa mistero sensuale, materica inquietudine che la voce barbaramente umana di Succi filtra con sangue sporco. Fino al duetto in ”Come mi vuoi” con la sempre bravissima Francesca Amati dei Comaneci -che qui per la prima volta canta in italiano- frutto sussurrato di una dolcezza senza tempo, figlio della sensualità dei suoni, della potenza delle parole disegnate dalle corde orchestrate da Succi. Se esiste una versione soft della Chiamami adesso in coppia con la Birkin, beh, questa è proprio il rendez-vous ovattato di ”Come mi vuoi”. E alle prese con gli ossessi della propria personalità, si arriva allo scontro con ”Diavolo rosso”, che da foxtrot da camera si fa violento presagio free noise, degno del migliore sound à la Bachi. Se dovessimo trovare un momento in cui la densità di Succi sovrasta ciò che è stato -e sempre sarà- l’universo contiano, quel momento per me arriva con ”L’incantatrice” e quella drammaturgia blues metallicamente morbida, come una cascata di minerali che ci piomba addosso senza farci un graffio, come la grandezza di un film di Leone, come un imprevedibile fuga verso l’abisso. Del jive di ”Bartali” non resta nulla se non quel moto un po’ annoiato e canzonatorio di un acuto osservatore; una traccia che vive con un metronomo nel petto, pronto a esplodere di fronte all’ennesimo francese incazzato. Scomposto, sguaiato, come un cane rabbioso si fa lo spirito di ”Questa sporca vita” in preda a chitarrone grezze, che sanno di bruciato, di bollori terragni. Dal vaudeville ormai mondiale della celeberrima ”Via con me” a una versione ridotta, secca e visionaria per salutare con estremo amore e fanciullesco rispetto un Maestro ascoltato tutta la vita.
”Lampi Per Macachi” lascia per strada l’orchestralità baldanzosa tipica degli arrangiamenti di Conte, dimentica la strada del jazz puntando invece su tinte noir e desert blues, marcando i silenzi, scarnificando e concedendosi sfumature elettroniche e ipnotiche. A chi gli chiede il perché di questa scelta, Succi risponde così ”Il maestro è nell’anima o, parlando di me, nell’animale! Conte è l’unico cantautore italiano che io abbia ascoltato, dall’infanzia a oggi, al quale senta di dovere molto, fondamentale nella mia formazione musicale. Mi accompagna in modi diversi in tutte le età. Da bambino ascoltavo “Azzurro” e “Onda su onda” e oggi mi ritrovo a cantarle come ninnananna a mio figlio. Certo non si direbbe, siamo distanti musicalmente: ciò che per lui fu il jazz clandestino fino agli anni Quaranta, fu per me l’heavy metal dei primi anni Ottanta. Ascoltando le rispettive produzioni questa distanza emerge, ma la mia devozione contiana agisce, come altre, sulla mia produzione musicale fuori contesto. Paolo Conte è per me un vero maestro di stile”. Macaco selvaggio dal cuore di burro, Succi riesce a illuminare la bellezza di un colosso (forse) insormontabile e come i nani, sulle spalle dei giganti, ha scritto il capitolo di una storia che sembrava impossibile. D’altronde si sa, fra ghigni ci si intende.
(Beatrice Pagni)