C’è in giro una nuova miscela torbida che avvolge e succhia ogni sentimento, all’incrocio tra post-rock e delirio Corganiano, lavoro lucido, pazzo e col cuore intinto in una marea di intuizioni drammatiche, una luce opaca che rincoglionisce di bello.
I lombardi judA sono in giro con il doppio Quel brevissimo istante in cui ti manchi, due ore e dieci minuti di oblio distribuito in sedici tracce color pece, un disco “drammaturgico” e calato profondamente in una espressività riverberata, piena e ossessa, che apre i varchi ad un ascolto meditato, preso in totale armonia con le trame tentacolari della tracklist. Disco di ospiti e narrazioni, nebbie e foschie che salgono e scendono provocando decadenze ottime e ascese liquide, una sequenza di emozioni fumè e poetica sperimentale dove tutto è a fuoco, dove tutto suona avvincente. Sulla linea del concept, l’album del trio è un percorso che compone una malinconia fluttuante che rimane calda nel galleggio della propria essenza, deflagrazioni e sfioramenti si competono qualche raggio di sole malato che fa luce qua e la, tutte cose che arrivano ad avvelenare di maestà l’underground circostante e come se non bastasse, anche un disco che si muove convulsamente, aderendo a un immaginario “libero, dilatato e spirituale” che placa ed infuoca ogni sentimento compresso di noi.
Dicevano sedici tracce che colpiscono al centro, un innegabile senso di dolore e piacere, ferita ed unguento nello stesso tempo che, nelle arcadie volanti “Aquiloni a nord, nel fragore circolare “Ars obliovionis”, dietro le pedaliere roventi di “100″ o inseguendo l’animalità elegante di certi Smashing Pumpkins (“Nuove invenzioni”), come in quel rubino d’antan che riporta a galla i macramè acustici di lontani Acqua Fragile (“Quasi smetto”), conserva quel racchiuso e fuoriuscito abbandono inquieto sonoro che – in fondo – è tormento ed estasi allo stato puro. Da inchino.
(Max Sannella)