18 novembre, esce il nuovo lavoro solista del leader dei Diaframma. Con questa scusa siamo andati a setacciare presente passato e futuro di uno dei cantautori ‘rock’ più significativi degli ultimi trent’anni di musica italiana. Domenica 2 novembre, invece di andare a festeggiare al cimitero, ho preferito fare una gita a Firenze, invitata da Federico Fiumani, che ho convinto a sottoporsi ad una intervista decisamente non ordinaria. E torni a casa che, in fondo, ti sei anche un po’ intervistata da sola.
Siamo alla Galleria del Disco, stazione di S.M. Novella. Federico è un affezionato cliente, fin dai primi anni ’70, precocissimo ragazzino. Sì, si tratta di uno dei negozi di dischi certamente più radicati sul territorio, che nel tempo ha fidelizzato il suo pubblico, e oggi conta acquirenti 50enni e oltre come me, ma anche giovanissimi. Per stimolare le nuove generazioni, che sono poi il futuro della musica, organizzano eventi ed incontri, spesso ospitando noti rapper. Una volta c’era Fedez e fuori si formò una fila tipo Beatles… io pensavo alla visita di un capo di stato o qualcosa del genere. Insomma si danno un gran da fare nonostante la crisi del settore e riescono a mantenere vivo il negozio, che si è arricchito nel tempo di una forte impronta sul rap, ma anche sulla dance e altro. Per quanto mi riguarda, associo questo luogo agli anni ’72-’73, qui compravo le vecchie K7. La prima fu La Pecora, secondo album di De Gregori, che piaceva a mia sorella più grande, che con i suoi tre anni in più ha contribuito molto alla mia formazione, musicale e non solo. Ricordo sempre con emozione l’acquisto dei primi dischi, 4500 lire di sudata paghetta.
Quindi tra le tue prime influenze c’è la canzone d’autore italiana d’alta qualità. E quando subentra l’ondata travolgente del movimento punk? Avevo 17 anni nel ’77, quindi ebbi la fortuna di viverlo in diretta. Comprando riviste musicali vedevo le foto di questi degenerati, questi ‘punk’ che facevano un po’ impressione, quasi schifo, ma in senso positivo. Non potevo non subire il fascino di quel modello estetico molto forte che proprio in una sorta di degrado aveva la sua attrattiva, del resto, 17 anni sono l’età della trasgressione totale. La connotazione sociale e politica del punk inglese denunciava un malessere storico, generazionale. In quegli anni la Gran Bretagna registrava un tasso di disoccupazione altissimo, e i giovani avevano tutti i motivi per gridare ‘ no future’. Risputavano in faccia alla società inglese la spazzatura che essa stessa produceva, e lo facevano vestendosi di spazzatura, letteralmente. Quindi nichilismo, anarchia, ma non demenza – se non involontaria. Il punk demenziale è invece un fenomeno tutto italiano e bolognese in particolare, con gli Skiantos.
Dal momento che hai citato gli Skiantos, quale fu il tuo rapporto con Freak? Fu un rapporto non continuativo, ma comunque di grande amicizia. Ricordo una bellissima serata nel 1997 a Settimo Milanese, Diaframma e Skiantos insieme in concerto. Per Freak Antoni ho avuto sempre e solo grande stima, ammirazione. Era un tipo ganzissimo. Di intelligenza sopraffina, cultura estesa, come ampiamente dimostrato nei suoi libri. Dementi, apparentemente sconclusionati, fieri sostenitori del non saper suonare, gli Skiantos furono tanto amati proprio per il loro gusto della provocazione estrema, che al di là delle apparenze esprimeva concetti tutt’altro che demenziali. Del resto Freak non era esattamente un allegrone, sappiamo quanto percepisse gli aspetti drammatici dell’esistenza. E poi nella Bologna degli anni ‘70 che io frequentavo assiduamente dilagava il problema dell’eroina. Erano tutti dentro fino al collo. Le droghe, si sa, ispiravano molta produzione musicale, ma non solo, nell’arte in generale hanno avuto spesso un ruolo fondamentale. Unite ovviamente al talento, altrimenti sei un tossico e basta.
E il tuo rapporto con le droghe? No, a dire il vero io non mi sono mai drogato. Certo, qualche canna, ma niente di più. Devo dire però che l’argomento mi ha sempre molto affascinato, anzi forse sono uno dei massimi esperti, le ho studiate, ho vuotato intere biblioteche, ma a questa curiosità non è mai seguita la messa in pratica perché ne ho sempre avuto paura. Ho visto tantissimi finire male. In questo senso sono sempre stato molto poco rock’n’roll, forse perciò mi sono conservato (quasi) integro per tutti questi anni.
Ti va di parlarmi della tua famiglia? Non ne so nulla. Una famiglia serena? Mah, insomma. Piuttosto sfortunata per la verità. Mio padre morì quando avevo 5 anni. I miei genitori erano entrambi professori. Mia madre invece è ancora viva, ha 91 anni, abbiamo sempre avuto un buon rapporto e abita qui a Firenze, vicino a me. Le sono molto affezionato – forse troppo – ma è comprensibile dato che fu in sostanza il mio unico riferimento. Mia sorella più grande, già ho accennato all’influenza che ebbe sulla mia prima formazione, lasciò l’Italia prestissimo, a 19 anni, sposando un greco e andando a vivere là. Io di anni ne avevo 16, restammo io e mia madre.
Ci troviamo in una libreria del centro di Firenze, mi è cascato l’occhio su un titolo: Mafia, una legge che non perdona. Mi viene in mente una dichiarazione recente di Grillo, in merito al fatto che la mafia delle origini possedesse una propria morale, un codice etico, che sarebbe stato poi corrotto dalla finanza. Tu che ne pensi? Mi sembra un’affermazione un po’ forte, ma concordo sul fatto che inizialmente il fenomeno nacque come sistema di valori di stampo contadino, che andò modificandosi nel tempo fino a snaturarsi completamente.
Ti interessi di politica? Io? Me ne intendo molto poco, anzi per nulla. Non me ne frega niente, sono un qualunquista in tal senso. Renzi? Dico solo lasciamolo lavorare ancora due anni. E poi si valuta.
Arrivati al reparto dischi . Vediamo cosa ci capita a tiro. Frank Zappa? Non mi piace. Rocco Hunt. Lo conosci? Chi è? Morrissey? (che ha da poco suonato a Bologna) Non mi piace neanche lui. Jefferson Airplane? Appartengono a un’epoca precedente rispetto alla mia, non mi sento molto vicino a loro, soprattutto perché quella generazione era molto figlia dell’LSD. Il loro aspetto per così dire ‘drogastico’ influenzava fortemente una produzione musicale che non ho mai amato particolarmente. Tutto l’ambito della psichedelia era interessato dall’uso di sostanze che dilatavano il tempo. Appunto perché non mi sono mai drogato, non comprendevo a fondo quella musica, che penso possa essere pienamente apprezzata solo trovandosi in uno stato di alterazione della coscienza simile a chi l’ha prodotta. Sono sempre stato presente a me stesso, il che ritengo mi abbia impedito di entrare in sintonia con questo universo. Mi sono invece innamorato del punk, che in un certo senso si contrappone alla musica psichedelica degli anni ’60, quest’ultima appunto caratterizzata da tempi lenti e dilatati, e da una filosofia ‘peace and love’, mentre l’altro propone un ritmo veloce e incazzato. Del resto i punk odiavano gli hippies.
Che mi dici dei Beatles? Li adoro alla follia. Anche Freak Antoni era un loro grande estimatore, scrisse addirittura un libro, ‘Il Viaggio dei Cuori Solitari’ , che era poi la sua tesi di laurea al Dams. Mi vergogno quasi un po’ ad ammettere che sono un acquirente maniacale di tutte le edizioni rimasterizzate di tutti gli album dei Beatles. Ho comprato ogni disco dei Beatles almeno 4 o 5 volte.
Negli ultimi tempi sei considerato un po’ uno sfigato se ti piaccionoi i Beatles. Ah, allora io sono sfigatissimo. Ecco, quest’altro album l’avrò comprato 20 volte, nelle varie edizioni con bonus track e foto diverse. Never Mind the Bollocks, Sex Pistols. Ma il disco che ho comprato di più in assoluto è Marquee Moon dei Television, 1977. Tom Verlaine è il mio chitarrista più amato. Perché i Television? Cosa li differenzia da pilastri del punk come Clash o Sex Pistols? In effetti è una band che ebbe molta meno notorietà, anche se vedo con piacere che negli ultimi anni sono stati riscoperti. Innanzi tutto erano americani, provenivano quindi da un contesto molto diverso da Londra. Nacquero in un piccolissimo locale, il mitico CBGB di New York. Qui affondano le radici di una grossa scena musicale, insieme ai Television, c’erano Blondie, Ramones, Talking Heads… Il loro era un ambiente molto meno politicizzato di quello inglese. Il punk americano era apolitico, del tutto disinteressato a simili questioni. I Television mi piacevano soprattutto per l’amore della poesia simbolista francese, che condividevo con Verlaine. Il suo vero nome era Thomas Miller, ma prese in prestito il nome d’arte dal famoso poeta simbolista Paul Verlaine. Insieme a Patti Smith, Tom incarnava l’ala intellettuale del punk newyorkese di quegli anni. Io trovai nei testi colti di Verlaine una sorta di epigono musicale della poesia maledetta. La sua chitarra aveva caratteristiche di originalità che non appartenevano invece agli altri artisti che condividevano quella scena.
Che studi hai fatto? Liceo scientifico. Poi ho iniziato Lettere, ma ho smesso subito. Volevo suonare il rock’n’roll. E questo tuo forte interesse per le discipline umanistiche? Forse il fatto che mia madre fosse una professoressa di Lettere ha influito. Ma soprattutto ho amato cantautori i cui testi rappresentavano la cosa davvero rilevante, avevano un valore letterario.
Ti piacciono i cani? Mia sorella ne ha sei, ma io non li adoro.
Come ci si costruisce una cultura musicale? Pian piano uno se la fa, dedicando molto tempo agli ascolti. Io me la sono fatta così. Naturalmente restano sempre generi inesplorati. Io sono un totale ignorante di molti generi, ma dei due o tre che mi piacciono so praticamente tutto. Del resto non ha senso conoscere tutto, la musica deve essere un piacere. Si avverte in maniera naturale verso quali cose scatta una passione sincera, e le si va ad approfondire.
Battisti? Mi piace molto. Lucio Dalla? Non l’ho mai conosciuto, ma l’ho adorato soprattutto nel periodo della collaborazione con Roberto Roversi, il famoso poeta bolognese. Per me la poesia – e Roversi in particolare – è stata l’equivalente di ciò che furono per molti le droghe. Rappresentava l’apertura verso un mondo altro; quella voglia di sballarsi, necessaria, vitale che hai a 16/17 anni, io la soddisfavo con i testi che Roversi scriveva per Dalla. Mi davano delle visioni, quasi mi ubriacavano, senza però essere dannosi come la droga. Appagavano il mio bisogno di assoluto, di rompere i confini del proprio Io, spesso opprimente. L’arte in generale è come una droga, senza impazziremmo, chiusi nel nostro microcosmo. Anche la musica serve a questo, è voglia di esplosione, di uscire di testa, in un certo senso. L’arte serve a riequilibrare le nevrosi in cui viviamo. Roversi e Dalla fecero tre dischi insieme: Il giorno aveva cinque teste, Anidride solforosa e Automobili. Qui la musica italiana toccò vette tuttora inesplorate, secondo me. Ci si trova un connubio incredibile fra testi e musica incredibile. Questi sono davvero dischi che mi hanno cambiato la vita.
La tua musica, in accordo con lo spirito punk, è allergica a certo intellettualismo. Al tempo stesso tu sei una persona posata, colta, emerge sempre il poeta, il cantautore. Non rinneghi il sentimento, il romanticismo che hanno sempre intriso la canzone italiana d’altri tempi. Ma quelle storie d’amore erano piuttosto costruite, del resto in passato tante verità non erano ammesse. L’amore che canti tu invece è molto vero, porta anche sofferenza, lascia dei rimpianti, dei non detti, distrugge vite. E nei tuoi testi si intreccia anche con il tema del sesso, come è normale che sia. Non sussistono tabù. Ecco, il sesso: non ho mai capito bene come si colloca all’interno del genere punk, decisamente ‘spinto’ su molti argomenti, ma non su questo. Il punk era asessuato. I testi dei gruppi cardine della prima ondata punk britannica erano privi di ogni riferimento sessuale, solo vagamente – e raramente – sadomaso. In Inghilterra mi sa che si scopa poco. Noi italiani siamo più sensibili all’argomento. Pensa che il cantante dei Sex Pistols, Johnny Rotten, rimase vergine fino ai tempi di Never Mind the Bollocks (aveva 21 anni nel 1977), ed ebbe nella vita una sola donna, la sua attuale moglie, Nora Forster, di dieci anni più grande di lui, già madre di Ari Up delle Slits (Arianna Forster). Caspita, conosci molti retroscena. So tutto del punk. Perché l’hai amato? Perché era violento. Mi dava modo di sfogare tutti gli istinti aggressivi caratteristici dell’adolescenza, del resto io avevo anche i miei motivi per essere incazzato. La morte prematura di mio padre, mi fece sentire molto solo.
Tuo padre. Ti ricordi qualcosa di lui? Vagamente. Sono in psicanalisi da 28 anni, e molti ricordi affiorano. Psicanalisi freudiana? Non lo so. Penso freudiana, sì, sto sul lettino e parlo.
Sei uno che ama la buona tavola? Si, molto.
Il fiorentino medio spesso non è molto ben visto… Sì, in effetti il luogo comune vuole che i fiorentini se la tirino e siano poco ospitali. In parte è anche vero. Si dice poi che Firenze sia una città sonnecchiante dal punto di vista culturale, e credo che questo sia perché i suoi abitanti, come sopraffatti dalla bellezza artistica della città, tendano un po’ a sedersi sugli allori. La scena musicale fiorentina della fine degli anni ’70, primi anni ’80 si distinse da questa tendenza – con noi Diaframma, i Litfiba, Andrea Chimenti e i Moda, Detonazione, Neon – dando vita ad una bella scossa, un nuovo ‘rinascimento rock’ trainante per l’allora panorama underground italiano. Fu un bel periodo. Con una grande concentrazione di artisti in città. Anche grazie a negozi di dischi molto attivi che facevano arrivare dall’estero in tempo reale le novità musicali. C’erano poi molte etichette musicali indipendenti che non avevano nulla da invidiare alle label inglesi e che sostenevano il tipo di musica che facevamo noi e un’infinità di altre band in quel momento storico, IRA Records, Contempo, Materiali Sonori, Kindergarten Records. Noi con la IRA incidemmo il primo album Siberia, che ci portò fortuna in tutta Italia. C’erano, sempre in quel momento d’oro fiorentino, tantissimi locali per la musica dal vivo. Considera che, ad esempio, l’Independent Music Meeting nacque a Firenze nell’84.
Bologna è una città stimolante e accogliente? A periodi. Bologna ha vissuto fasi alterne, alcune molto vitali come gli anni ’80, successivamente ci fu un progressivo peggioramento, mentre negli ultimi tempi, a mio avviso, si sta ritornando agli antichi fasti. Ecco, Torino è oggi forse la capitale italiana del fermento culturale.
E l’influenza delle atmosfere decadenti del post-punk e della new wave? Fu quella che mi spinse all’azione. Nel ’77 ascoltavo punk, ma non suonavo. Iniziai perché era facile da suonare, e io non avevo una grande tecnica. Ci siamo rifatti moltissimo ai Joy Division.
Il tuo rapporto con Piero Pelù? Ci ha fatti incontrare la passione per la musica. Piero per me è un fratello, ha due anni in meno, quando io ne avevo 18 e lui 16 ci trovavamo da Contempo, il negozio di dischi del centro dove poi ti porterò, che trattava i generi punk e post-punk soprattutto, e dove si passavano pomeriggi interminabili a parlare di musica e si formavano gruppi in continuazione. Cosa pensi del successivo percorso artistico di Pelù, spesso e volentieri oggetto di aspre critiche? Si tende a dire che abbia ‘ tradito’ gli ideali del rock. Io, conoscendolo da tempi non sospetti, ti dico che la sua personalità non è affatto cambiata, aveva lo stesso carisma fin da ragazzino. Piero nasce rockstar. In città era considerato un pazzo, un deviato. Ci credeva fino in fondo, era un punk vero, andava in giro vestito come nessuno, e aveva un atteggiamento molto aggressivo e provocatorio, per il quale pagò di persona, venendo diverse volte menato. Poi io credo che sia normale cambiare col tempo, e anche giusto, sarebbe patetico diventare la caricatura di se stessi. Un certa cerchia (quella di provenienza, che magari i fan attuali neanche conoscono) lo accusano di aver sposato una logica commerciale che i Diaframma non hanno mai nemmeno sfiorato. Vero. Ma c’erano e ci sono sostanziali differenze tra lui e noi. Piero buca lo schermo, noi no. Solo lui in Italia poteva contare su questa dote. E poi negli anni ’80 i Litfiba avevano una formazione a cinque in cui tutti scrivevano. A fine anni ’80 se ne andarono Maroccolo e Aiazzi, che scrivevano gran parte del repertorio, lasciando Piero e Ghigo soli. Persero due elementi portanti, fondamentali per lo stile più sperimentale della produzione dei primi anni. Poi prese chiaramente più piede la passione per l’hard rock, per Santana, degli altri due.
Vorrei farti qualche domanda personale. Botta e risposta. Credente? Praticante? Si. No. Permaloso? Si. E praticante. Innamorato? No. Single? Si, da due giorni. Felice? No. Lo sei mai stato? Si. Quando? Nel 1989, per alcuni mesi di fila. Che tu sappia, hai figli? No. Ne avresti voluti? No. Li avrai? Mai dire mai. Perchè non ne hai avuti? Una responsabilità troppo grande? Incompatibile con la carriera d’artista? Mi è mancata la donna giusta. Voti? Si. Come ti hanno cambiato oltre trent’anni di palco? Sono più sicuro di me, più esperto. Ma l’attrazione verso la dimensione live, la voglia, è rimasta la stessa? Si. Se non avessi fatto il musicista, hai un’idea di cosa saresti oggi? Barman. Tette o culo? Culo. Disco dei Diaframma a cui sei più affezionato. Siberia. Il primo non si scorda mai. E poi ebbe molti riconoscimenti. Grande soddisfazione. Singoli brani a cui sei più affezionato? Hai dichiarato in precedenti interviste Siberia, Gennaio e Labbra blu. Sono ancora questi? Si. Continuo a pensare che siano le canzoni migliori che ho fatto. E nella tua produzione più recente? Vaiano. Abbiamo parlato un po’ di piedi femminili. Li ritieni la parte del corpo più affascinante (se belli) in una donna? No, prima il culo. Volto e sguardo? Meno importanti.
Fiumani solista. Esce tra poco ‘Un ricordo che vale dieci lire’, album tributo ai più importanti cantautori italiani. Perché questa scelta? Che rapporto hai con la memoria e con il ricordo? Un rapporto intenso, sono nostalgico di mio. Ho voluto andare indietro nel tempo a cercare le mie radici musicali, prima del punk. Avrei fatto quel tipo di musica ma poi è arrivato il punk. Quindi alla fine sono un incrocio, diciamo un cantautore punk.
I ricordi li vivi in modo sofferente? No, solo con nostalgia, cioè tendo a selezionare ricordi piacevoli, sublimando la malinconia in musica.
Fiorentino o anconetano? Sono nato nelle Marche ma dopo la morte di mio padre ci trasferimmo a Firenze. La sento casa mia.
Ti senti di consigliare qualche gruppo emergente? Boxerin Club.
Suoneresti con loro? Molto volentieri.
Concerto dei Diaframma che ricordi con particolare piacere? Tre anni fa, aprile 2011 al Viper di Firenze. Da quel live abbiamo tratto anche un disco, invitai ospiti e amici di sempre, Chimenti, ex cantante dei Moda, Marcello Michelotti dei Neon, Miro Sassolini. Fu davvero una bella serata, un bel déjà vu.
Non eri tu il primo cantante dei Diaframma. No, infatti. Subentrai a Miro nell’89. Anche se non sono fatto per stare al centro della scena, non nasco cantante. Oggi però quasi mi ci diverto. Forse sei nato per scrivere? Sono nato. Forse per fare il musicista. Autodidatta? Inizialmente si, poi mi misi a studiare solfeggio, pianoforte, teoria musicale, e devo dire che male non fa.
In interviste precedenti hai dichiarato di avere “poca tecnica e tanto sentimento”. Col tempo, mi pare di capire, la tecnica si è perfezionata? Diciamo di si, ma intendiamoci, niente di speciale. Giusto il minimo indispensabile di cognizione della teoria musicale, ma l’attitudine punk rimane sempre fondamentale nel mio modo di fare musica.
Date previste per il nuovo album? Non farò concerti. Le atmosfere del disco sono esclusivamente acustiche e nei club non si sentirebbe nulla. È un disco da ascoltare più che da riprodurre. Sarà distribuito in cd in tutti i negozi, con la Self. Una settimana dopo esce in vinile in edizione limitata, solo per chi ha sostenuto la campagna Musicraiser, non si troverà nei negozi, ed è una logica che condivido.
Cose che non tolleri? Zanzare, maleducazione e arroganza.
Cose che adori? Sole, musica e donne.
Quante donne hai avuto? Parli di storie importanti? Sei o sette.
Mai sposato? No, per scelta. Conoscendomi sono molto discontinuo nei sentimenti, non sono adatto alle storie lunghe.
E gli amori importanti sono finiti per insofferenza delle tue compagne rispetto al tuo modo di essere? Si, spesso.
Comunque avrai avuto anche una quantità di relazioni occasionali. Beh si, come te, come chiunque, penso.
Sei narciso? Si.
Prossime date con i Diaframma? Tante. Pordenone, Milano, un tour al sud a Dicembre, molte date a gennaio e febbraio, Bologna in marzo. Abbiamo fortunatamente molto lavoro.
Formazioni dei Diaframma. Numerosi corsi e ricorsi, si sono avvicendati al tuo fianco tanti musicisti. Quale ti ha dato più soddisfazioni, a quale ti senti più legato? Quella originale di Siberia, eravamo come fratelli, molto uniti. Anche con la band attuale mi trovo davvero bene, sono tutti musicisti molto validi e motivati. Luca Cantasano al basso, Lorenzo Moretto alla batteria, Edoardo Daidone alla chitarra, io chitarra e voce.
Cristina Donà, Labbra Blu. È stata lei a volerla interpretare o glielo hai chiesto tu? Lei la cantava già per fatti suoi quando si esibiva prima del suo debutto con l’album Tregua, faceva parte del suo repertorio. Il marito di Cristina, Davide Sapienza, è un amico e gli chiesi se Cristina avrebbe voluto incidere una versione del brano da mettere nel mio disco. Lei lo fece, e ne siamo tutti felici. Ammetto che non sono un suo fan militante, ma ha una voce straordinaria e preferisco la sua versione alla mia.
Primo disco punk comprato? Sheena is a Punk Rocker dei Ramones, 45 giri.
Concerto che recentemente ti ha emozionato? His Clancyness al Tender a Firenze. Jonathan Clancy mi piace un casino. Lo stimo molto.
Il tuo pregio? (se ne hai) Tenacia.
Il tuo difetto? (se ne hai) L’antipatia. Ma non mi dispiace, sto per i cazzi miei.
Rimpianti? Avrei potuto iniziare a farmi i fatti miei da un punto di vista musicale prima. Sono stato a lungo condizionato dall’idea – forse distorta – di avere successo con la musica seguendo modelli che non mi appartenevano, non tanto musicali ma come comportamento. Quando ho iniziato a seguire il mio credo, nei primi anni 2000, sono stato molto meglio. Avrei dovuto cominciare prima a ragionare con la mia testa.
Ci fu un temporaneo scioglimento dei Diaframma? Si, nell’88 con la separazione da Miro Sassolini, smisi anche di suonare. Feci il barista per un po’. Poi tornò fuori la passione per la musica, decisi di cantare io e vedere che succedeva. Feci un pezzo che si chiamava Gennaio, e andò molto bene.
Vivi di musica? Si. Ci vivo bene, senza problemi economici. Ci ho messo anche tanti anni però. Non so quanti oggi sarebbero disposti a fare per 25 anni un mestiere che non ti dà da vivere. Io stavo in casa con mia madre, poi sono andato a vivere da solo, ma, ti assicuro, mi trovavo nella miseria più assoluta.
Mi sono imbattuta in una tua intervista a Messina nell’ 85. Eri molto bello, avevi 25 anni. Ma a parte questo, dicevi una cosa interessante: che per i Diaframma poter viaggiare in tour era importante tanto quanto suonare, conoscere per conoscere gente e luoghi nuovi, uscire da Firenze, fu per voi un’esperienza fondamentale vissuta grazie alla musica. È ancora così? Non ti sei stancato? No, è sempre emozionante. Oltre al pubblico affezionato che ci segue dagli inizi, il ricambio generazionale porta sempre nuovi fan, e c’è sempre qualcosa da scoprire.
In perfetta solitudine è il vostro pezzo che preferisco, per ragioni personali. Lo lego ad un amore clandestino, che ho lasciato andare con rammarico. Come spesso capita, all’ascoltatore sembra proprio che il brano parli delle sue vicende private. La forza dei testi. Mi racconti la genesi di questa canzone? Pensa, parla proprio di un amore clandestino, ovviamente mio. Non sei andata lontano dalla verità. Però non è pezzo che amo molto eseguire, è troppo veloce, ma piace molto al pubblico, ce lo chiedono sempre.
Amicizie importanti con colleghi musicisti? Pelù, ma del resto sulla scena fiorentina ci si conosce tutti bene. Tramite Facebook ho conosciuto moltissime persone. Mi spiace nominare qualcuno, e magari poi dimentico altri, comunque sia, al momento mi viene in mente Capossela. Non ho amici strettissimi, come ti dicevo sono antipatico e asociale.
E acerrimi nemici? Nessuno. A 54 anni predomina un senso di indifferenza rispetto all’odio, non ho energie da sprecare. Da giovane non sopportavo musicalmente chi andava a Sanremo. Quell’altra parte della scena fiorentina anni ’90, Masini, Vallesi. Orripilante. Feci anche un video, L’odore delle rose, in cui venivo torturato a base di Masini e Vallesi e mi dimenavo. Odio solo la musica di plastica, quella robaccia sanremese.
Infatti non sei mai andato a Sanremo, anche se più volte sollecitato. Si, con insistenza. Ma ho sempre rifiutato.
Abbiamo già parlato a lungo di come le tue influenze musicali del dopo ‘77 , siano rimaste ancora tuoi punti di riferimento. Negli anni ’90 – 2000 si è aggiunto qualcosa di fondamentale? Nel mio modo di comporre? No. La musica non evolve con la velocità della tecnologia, l’arte va lenta. Un disco uscito negli anni ‘60-‘70 se è bello non ha età. Prendi la lezione dei Beatles, insuperata e sempre attuale. Erano dischi pieni di creatività, di invenzioni ardite, conservano intatta la loro ragion d’essere.
I Diaframma hanno suonato all’estero? Si, Francia, Svizzera, Olanda.
Ci fu un momento in cui avreste potuto fare un salto di qualità e approdare sulla scena internazionale? Ma no, sarebbe stata impossibile perché canto in italiano. Anche se abbiamo avuto un ottimo riscontro, soprattutto in Francia. Proprio agli inizi. Nell’81-‘82 un’etichetta inglese ci propose un contratto eil trasferimento a Londra. Eravamo giovani, ma non tutti disposti a partire. Io e il cantante volevamo andare, gli altri due volevano restare. Alla fine prevalse il no. E fu giusto così. Non abbiamo nulla di speciale, se non i testi. Quindi che andiamo a fare all’estero? Proprio due mesi fa il Consolato italiano ci ha proposto di suonare a Londra, ma ho rifiutato. Io dico: il rock l’hanno inventato loro, io posso contare solo su alcuni buoni testi, che non vengono capiti. Hanno insistito dicendo “Ma Londra è piena di italiani”. Ma scusate, che faccio, vado a Londra a suonare per gli italiani? Allora sto qua. Per apprezzare i Diaframma è indispensabile capire la nostra lingua, altrimenti siamo un gruppo medio, anzi, anche meno. Ci sono infiniti artisti più interessanti che cantano in inglese. Non avrebbe veramente senso.
Se ricevi critiche come reagisci? Bene. Mi portano a migliorare. Certo, le accetto se sono circostanziate e dette da una persone che stimo. Poi sai, la musica è un fatto soggettivo, non ha ragione nessuno. Persino chi dice che i Beatles fanno schifo, che per me è un’eresia, ha un su motivo di esistere. È la stessa cosa di prima, quando mi chiedevi se preferisco il culo o le poppe. I Velvet Underground, al primo disco, sfoggiano una tecnica imbarazzante. Batterista e chitarrista erano delle merde assolute, però avevano le idee. Oppure, non so se ti rendi conto di come suonava il basso Sid Vicious. E non perché fosse sempre strafatto. Per dire, Jimi Hendrix era bello sconvolto, ma sapeva suonare.
Commistione tra spirito punk e malinconia. Io personalmente ho sempre percepito il risvolto poetico anche del punk più trucido, rozzo e cattivo, ma per molti non è così lampante. Come convive la musica dei Diaframma con la lezione del punk inglese e l’interpretazione mediterranea, molto più sentimentale? Chiaramente i Diaframma non sono un gruppo punk. Certo, ho amato profondamente il genere, ma non ho mai fatto punk strettamente inteso, più New Wave e canzone d’autore. Più che altro ho un’attitudine punk dal vivo, quella filosofia del ‘do it yourself’, dell’autoproduzione, di fare dischi fuori dal mercato ufficiale. Ma anche questo è un po’ un falso mito, i grandi gruppi punk inglesi incidevano per le major. E ripeto, cantare in italiano non è punk, non si presta per nulla. Gli italiani universalmente riconosciuti come più rappresentativi e fedeli al genere furono i Negazione di Torino: loro pure cantano in italiano, ma non si capisce una parola, perché piegano la lingua al tipo di musica.
Siamo nel frattempo arrivati da Contempo, con lo storico titolare Giampiero Barlotti, un’istituzione a Firenze. Questo è il negozio dove ci siamo conosciuti tutti, l’equivalente del Disco d’Oro di Bologna. Siamo in Via dei Neri, all’epoca via della spaccio fiorentino. Contempo era anche un’etichetta, fece uscire l’EP dei Diaframma Altrove, nel 1983. Ma pubblicava anche roba estera molto importante. Poi arrivò la crisi del settore e Contempo fallì. Recentemente si è ripresa, anche se oggi si vivacchia rispetto agli anni ‘80. Il sabato pomeriggio non si entrava per quanta gente c’era. Dalle 3 alle 5 di pomeriggio c’erano i metallari, quasi tutti facevano gli operai e potevano comprare, erano bei soldi. Dopo le 5 arrivavamo noi new wavers, si facevano i turni praticamente, per evitare gli scontri. Oggi è un’ecatombe: negli anni ‘80 a Firenze erano attivi 64 negozi di dischi, ora saranno 7-8. In pieno centro c’era Marquee Moon, bellissimo, trattava solo vinile. Purtroppo ha chiuso un mese fa. Invece Rock Bottom in via De Giraldi ancora sopravvive. C’è un ritorno del vinile, è vero, ma è impensabile raggiungere i fasti del passato. A quel tempo per fruire la musica dovevi comprare i dischi, era un investimento di tempo, emotivo ed economico. L’oggetto disco aveva un valore in sè, ti dava un senso di appartenenza, provavi affezione, rispetto. Poi la musica è diventata tutta gratis, e ora addirittura va a cercare i fans. Non solo non devi andare nei negozi a comprare, ma ti propinano di continuo cose che non vuoi sentire. Avendo tutto, l’ascoltatore è disamorato, i suoi sensi sono molto poco accesi. Noi avevamo avuto un’educazione sentimentale, di desiderare le cose. La Contempo è ripartita da poco con ristampe di roba vecchissima: vedi in vetrina i primo due dischi degli Equipe 84 in vinile, i Ribelli di Demetrio Stratos, e poi colonne sonore, Trovaiolo, Morricone. Fanno cose mirate, molto richieste anche all’estero.
Io mi vado a prendere una birra. Te la vuoi o no? Si, grazie, birretta piccola.
(Giulia Barbieri)
Foto con Pelù: Valeria Rusconi
(per gentile concessione de La Repubblica XL)