Se le vincenti audacie e la perenne insoddisfazione sono state e sono le compagne di viaggio di un intramontabile Morrissey, le spinte motrici di Johnny Marr (ex chitarrista degli Smiths) a (ri)procreare in proprio certe vicissitudini musicali Manchesteriane dei tempi dorati – onestamente – non smuovono gli animi più di un tot, e Playland – secondo disco dell’artista britannico – anche se foriero di chitarrismi, emotività e arrangiamenti ben architettati, in fondo non è altro che un excursus al contrario dell’epopea – appunto – degli Smiths, della loro pulsione atemporale che scorrazza per tutta la tracklist, anche con smisurata euforia.
Sì, effettivamente disco di nostalgia, un tributo a quel che “si era” e nulla di più. Una manifesta ispirazione che invaghisce di prima botta, ma poi la sostanza è di quelle già consumate, masticate e digerite; pop rock di chitarre e arie waveing (“Back in the box”, “Dynamo”), feedback e “punkerie” varie (“Playland”, “Boy get straight”), che riesumano Suicide, Cramps, New Order (“The Trap”), poche le spinte convincenti, rimane solo quell’appeal di forte simpatia che è rimasto appiccicato agli Smiths in generale.
Ad ogni modo Johnny Marr rimane un artista elettrico inquieto, liricamente ancora preso da sesso, contro il consumismo, l’usa e getta della società, un animo in pena che potrebbe infastidire molti colleghi coetanei, invece non si capisce perché si intestardisca a fare dischi a quote d’interesse musicale veramente basse, ma molto basse. Forse la noia di stare con le mani in mano? Chi può dirlo.
(Max Sannella)