Philip Selway – per il cosmo rock il batterista dei Radiohead – esce ancora dalla sua forma percussiva, e ritorna a condividere le sue rivoluzioni intime imbracciando una chitarra e lasciando la sua ribalta luminosa per il suo secondo disco in solitaria, Weatherhouse, un punto di estasi intima che devia dal primo esperimento che fu quel bel Familial del 2010 per intraprendere la strada “confessionale” della propria esistenza, dieci tracce per circa una quarantina di minuti di circumnavigazioni mentali in cui l’artista si rivolge al passato, presente e futuro di sé stesso, cerca i suoi sogni, li incarta e riavvolge come a cercare certezze, i suoi affetti, la famiglia e – forse – una infanzia evoluta cresciuta troppo in fretta.
Chitarre, archi, pianoforti, melodie e ritornelli a bassa voce come a ribadire il parziale recupero di un passato – il suo – che conta e che riemerge come una decisa impronta della sua vita – umana ed artistica – poi ballate e nebbie, oscuri e luminarie fioche, tutte sul filo amarognolo e nostalgico a fare da contraltare alla voglia di esprimersi e di dare in pasto una poetica molte delle volte tenuta dentro, spesso decurtata per fare posto ad altro.
Con la collaborazione riconfermata di Quinta e Adem Ilahn, Selway scopre un animo fragile e semplice, lontano ere dal personaggio ritmico dei Radiohead, tenero e friabile e tracce come “Waiting for a sign”, gli echi mid-elettronici “Miles away”, il field a cuore aperto “Don’t go now” ne ritraggono i contorni della sua personalità agra, mentre i due titoli d’apertura – le migliori del lotto – “Coming up for air” e “Around again” si legano all’ascolto per un segno di rinascita, per una condivisione di grazia che Selway – con questo secondo esperimento – mette a disposizione di altrui animi.
(Max Sannella)