Nonostante ci sia lo zampino di Charlie Hugall (Florence and The Machine) e Paul Savage (Mogway) dietro le quinte del nuovo Alarms In The Heart dei londinesi Dry The River, quello che subito balza all’orecchio è la sensazione di un disco fatto bene come ce ne sono a tonnellate in circolazione, un ascolto che scorre liscio ma del quale nulla – o poco – rimane “intrappolato” nei ricordi – appena finito il suo giro stereo, uno di quei prodotti senza ganci memorabili che arriva e va senza dare fastidio o gloria, indifferente.
Melodie cantate da Peter Liddle (voce e chitarra della band) che traghettano il resto della formazione in un caleidoscopio alt-folk dalle tinte Wild Beasts, Fleet Foxes & affini, roba fine e onirica, piccoli fasti pastorali stratificati, ballate al sapor di pino silvestre che hanno certamente il loro fascinoso percorso sognante ma che non “staccano” dalla massa, ottime cose che suonano e respirano senza rilasciare nulla.
Il quartetto inglese ha una compostezza strutturale e stilistica pienamente dispiegata, potenziale di crescita infinita ma priva di quella “febbricità” alcestiana, quel fremito che fa sciogliere le anime di chi ciondola intorno a questa tracklist, praticamente regna quella chiave di lettura che non lega con “deviazioni” o contrasti ottimi per stare alla larga dagli stereotipi del “tutto uguale” e per non girare a vuoto negli orecchi. Con la voce di Liddle che ricorda moltissimo – magari qualcosa in minore – quella di un lontano Demis Roussos degli Aphrodite’s Child, quello che può “esaltare” quel poco di esaltante forse il rock dalle frange epiche Rolleskate, Med school o la rarefatta visione di It was love that laid us low, il resto della mercanzia è ordinarietà – ripetiamo ben fatta – da scaffale.
(Max Sannella)