Difficile competere, soprattutto con se stessi. Chi scrive si è innamorata dei Blonde Redhead nel lontano 2007, dopo che un compagno di corso all’Università le passò qualche Mp3. Era l’anno di “23” e la band era all’apice. La rabbiosa ispirazione noise rock si amalgamava con un pop elegante, sottolineato dalla voce di Kazu Makino. Il nuovo lavoro pubblicato il 2 settembre, anche dopo svariati ascolti non raggiunge quello stato di grazia.
Barragán è un album che incorpora troppi aspetti e forse si cura poco di amalgamarli. L’esperienza ventennale del trio newyorchese avrebbe potuto influire meglio sul materiale proposto. Ad esempio “Cat on tin roof” con la sua linea di basso accattivante e i giochi di chitarra e voce risulta un ottimo divertissement ma nel complesso del disco è una pillola estranea, soprattutto se posta tra due brani intensi come “Dripping” e “The One I love”. Il primo più vicino alle ritmiche dei lavori precedenti anche se è presente un accenno più marcato sull’elettronica. Il suono cola come vernice, come nei dipinti di Pollock, goccia dopo goccia, beat dopo beat, le sonorità formano un pattern astratto su cui Simone Pace tesse un testo evocativo “I saw you dripping sunlight/I saw you dripping moonlight”. “The One I Love” si muove su toni decisamente più barocchi, alle chitarre si sovrappone l’impeto di una orchestra. Sulla stessa riga compositiva si snoda “No more honey”, che invece di usare la magniloquenza dei tamburi sfrutta sul ritornello una stringa di chitarra leggermente riverberata. Già con “Penny Sparkle” i tre avevano ammorbidito e reso, forse eccessivamente, artificiali le atmosfere. C’è da dire che in questo nuovo lavoro affiora la vecchia grinta, il lato dream si sfrangia su ritmiche più dense come in “Mind to be had”, una canzone complessa in cui l’elettronica si aggrega alla sperimentazione sonora degli esordi con risultati considerevoli. Un altro aspetto che i Blonde Redhead accolgono è l’arte del field recording. Un cinguettio, uno scricchiolio, come se qualcuno si fosse seduto su un vecchio dondolo di legno. L’immagine della classica casa americana con il porticato, una chitarra inizia la sua melodia e un flauto segue. Dei passi, una portiera che si chiude: qualcuno che arriva, qualcuno che forse se ne va. La title-track e brano di apertura del disco dura poco più di due minuti ed è un collage tra presa diretta e registrazione programmata. Non capiamo dove inizia la “finzione”. L’estrema naturalità con cui i Blonde Redhead si svela anche da questi piccoli particolari, infatti questi “spezzoni di realtà” tornano in altri brani tra cui “Defeatist anthem (Harry & I)”. Sei minuti in cui la classica composizione dream pop viene snaturata, inserti compositivi totalmente estranei, quasi “errori”, la puntina che salta, la strada e i passi, altri inserti musicali, prove, pause. Una coda estranea, un pezzo di un altro puzzle. “Seven Two” è il saluto mesto su chitarra e voce. Il fruscio del mare, il vento tra le foglie. Un ritorno alla natura, un cerchio che si chiude dove era iniziato.
Sul portico, seduti con la coperta a quadri sulle gambe, con gli auricolari per cogliere ogni dettaglio. Per cogliere quella scintilla compositiva che i Blonde Redhead non hanno perso, devo solamente riportarla al centro e metterla a fuoco.
(Amanda Sirtori)