“Possiamo ascoltare le canzoni?” chiese Flynn. “No.” rispose Dan. E gli altri urlarono: “Grande! Quando cominciamo?”.
Nasce così, libero da estenuanti sessioni di prove, della serie ‘buona la prima’, l’album Distance di Dan Michaelson and The Coastguards. Arriva dopo l’uscita nel 2013 del pluripremiato Blindspot il quinto sforzo creativo del cantautore inglese. I testi delle otto tracce di quello che per stessa ammissione del suo autore doveva essere un progetto solista, sono stati abilmente avvitati su di un tappeto sonoro minimalista, fatto di strumenti arpeggiati e sound pulito dove è stata bandita ogni sorta di sperimentazione. Niente virtuosismi o suoni disturbati da picchi particolari di entusiasmo, solo buona musica orchestrata dal nutrito parterre di musicisti (The Coastguards) accorsi negli studi di registrazione londinesi: Gabriel Stebbing (violoncello), Romeo Stodart (basso), Laurie Earle (pianoforte e chitarra), Horse (chitarra), Henry Spenner (batteria) e Johnny Flynn (violino), ai quali si è aggiunto Ash Workman.
È predominante, nonostante la sensibilità melodica dei guardacoste, la forte impronta personale del musicista di Northampton, che ha avviato la propria produzione artistica nel 2003 alternando esperienze di gruppo a quelle da solista. A partire dal marchio di fabbrica, l’inconfondibile timbro vocale robusto e fragile al tempo stesso, dal graffio a tratti annoiato, ed è proprio lì che svela il suo animo più genuino. Nonostante Dan Michaelson si sia tenuto alla larga dallo showbiz dando l’impressione di essere un personaggio schivo, quell’aria trasandata e un po’ triste a metà tra un compianto Heath Ledger e un giovane Gary Oldman, gli conferiscono quel je ne sais quoi che piace al pubblico femminile. Anche l’eta (è del ’76) è quella giusta per raccontare lo struggimento amoroso e rendere assolutamente credibile un vissuto evidentemente autobiografico. Dan ci presenta un disco viscerale, introspettivo, fatto di chiaroscuri appena percettibili, un racconto che mescola i sentimenti alle stagioni, e lo fa ispirandosi agli autori del soul e del country; la linearità e la lentezza sonora accostano alcuni dei suoi brani alla produzione del collega statunitense Bill Callahan, senza tuttavia allontanarsi troppo dai canoni più classici dei Maestri della scuola americana Leonard Cohen e Johnny Cash.
“Distance” immerge l’ascoltatore nella trama di un film. In “Evergreen” la voce assonnata del protagonista esordisce da un lento risveglio, insinuandosi come la luce sottile del mattino attraverso le persiane ancora chiuse. Il timbro si scalda in “Bones” con un pianoforte che si concentra su poche note a scandire tutto il disordine esistenziale, tra bottiglie vuote e vestiti sparsi. Sino a rivelarsi definitivamente nel brano di punta “Burning hurt”, che pare l’inizio di un lungo viaggio in moto dove la vita appare più leggera con il vento che stropiccia gli abiti. La quarta e quinta traccia scorrono via un po’ nell’anonimato lasciando spazio alla riflessione. E con le prime luci della sera si viene portati su sentieri più malinconici. Durante l’ascolto di “Evening light” e “Your beauty still rules” mi immagino Dan combattere i propri demoni appoggiato al bancone di un bar a bere whiskey, aspirando lentamente una sigaretta dietro l’altra. La narrazione di questo soffuso e intimo monologo si conclude sulle note di “Somewhere”, una nenia dolente che parte sommessa per poi aprirsi a nuove armonie, abbandonando per un po’ quell’attitudine allo struggimento che esplora i recessi della mente. Quasi a voler presagire un nuovo inizio.
(Agatha Orrico)