A tre anni di distanza dal loro esordio, “L’uomo biodegradabile”, tornano sulle scene i milanesi Decabox e lo fanno con un disco curato, strettamente rock, tra ballad e pezzi più carichi. Il loro sound è estremamente orecchiabile e radiofonico e si snoda tra brani che ammiccano agli ultimi Muse più “barocchi” (il singolo “Fingere che tutto sia”), conditi da testi acuti e intensi (l’apatia del quotidiano, la critica della società odierna), fino ad arrivare a pezzi più malinconici e acustici come la conclusiva “Tempo fa”.
In mezzo a questi due estremi si snoda un lavoro che, pur presentando somiglianze con gruppi mainstream quali Negramaro e Modà, fa dei Decabox una buona realtà rock nostrana: tra impennate chitarristiche grintose (“Tutto e niente”) e brani più blueseggianti (“Apnea”), passando per batterie ritmate e accattivanti (“Punto e basta”, che ricorda i Deasonika). In tutti i brani si fa notare la vocalità eclettica del vocalist Davide “Rive” Rivetta, coadiuvato da una band che sembra fare dell’affiatamento il suo punto di forza e che certo sa esprimere il suo meglio nei live. Il rock dei Decabox sa farsi anche inquieto (“Carta stagnola”), rabbioso, ma senza mai perdere la melodia di fondo, anche quando si inerpica in territori più elettronici (“Il nome mio”, “La Verità”), salvo poi tornare ritmato e scatenato nell’invettiva più verace (“L’autografo del mostro”).
Insomma quello che i quattro milanesi sfoderano è un disco che guarda al rock senza dimenticare la melodia e i testi, riuscendo bene a bilanciare grinta e orecchiabilità dei brani, finendo per dar vita a un prodotto compatto e piacevole.
(Alessio Gallorini)