Quando sono stato a Londra, svariati anni fa, Trafalgar Square era identica a come la vedo ora nelle varie fotografie, anche se ogni volta la statua dell’ammiraglio Nelson ha un nuovo particolare da scorgere. Il Nelson in questione è Steven Patrick Morrissey, cuore inglese (sangue irlandese) che arriva al suo decimo album da solista. Do per scontato che sappiate chi sia, trovando ridicolo il fatto che nelle recensioni si debba per forza indugiare sul passato di Moz, il personaggio è chiaro. Per questo disco viene riesumata la Harvest, casa discografica che nei primi anni della sua creazione era sfacciatamente improntata a sostenere artisti innovativi, quali Syd Barrett, Kate Bush o Alan Sorrenti. Questo album è un crack, come si usa nel linguaggio giornalistico per dire sostanzialmente che qualcosa è bello, ma guai ad usare l’italiano. Da molti è stato definito “un album stanco”. Bene, allora pagherei per ascoltare sempre dischi stanchi del genere. Dalla prima all’ultima traccia c’è una coerenza stilistica che ormai non si trova più neanche nei rapper; coerenza che parte dai testi, punta di diamante di Moz – basti pensare alla prima traccia (Each time you vote/ya support the process) – e che passa per una cura negli arrangiamenti che quasi va a soffocare la melodia, per quanto complessi ed articolati siano i supporti ad una voce che col passare del tempo sconfina sempre più nel crooning selvaggio. Nel disco stanco abbiamo tutti i temi comuni al nostro vecchio, dall’animalismo di “The bullfighter dies” al suicidio di “Staircase at the University”, alla critica sociale della traccia d’apertura, fino all’intimismo romantico di “I’m not the man”, fino alla struggente vicenda del padre che ricerca il proprio figlio nelle strade di “Istanbul” e poco importa il fatto che “Earth is the loneliest planet” faccia davvero schifo al ca**o, questo è a tutti gli effetti un “best of” di pezzi inediti, probabilmente non ai livelli migliori della sua carriera, ma sicuramente in una scala qualitativa sarebbe più vicino alla vetta che ai Dear Jack. Da non crederci come quest’uomo possa ancora tirar fuori perle con regolarità. Molti elementi lasciano pensare che questo possa essere il disco di commiato del gigante Morrissey, soprattutto le righe della sua autobiografia in cui sostiene di essere stanco della sua stessa voce. Se così fosse avrà lasciato un testamento incredibile.
(Mario Mucedola)
Ascoltare dopo un lustro il nuovo album di Morrissey, World Peace Is None Of Your Business (nella versione deluxe), mi fa tornare in mente la meraviglia che provai sentendo per la prima volta You Are The Quarry. In un colpo solo smisi di tenere il muso a Morrissey per la fine del punk targato The Smiths e iniziai a seguire, con altro orecchio, le sue orme da solista melodico. Registrato in Francia e prodotto da Joe Chiccarelli (U2, White Stripes) il decimo album solista esce in doppia edizione esattamente trent’anni dopo il primo vagito targato The Smiths; una con dodici brani e l’altra, la deluxe, con diciotto. La mano di Chiccarelli rende gli arrangiamenti orchestrali che attraversano il disco coerenti coi vari cambi di registro, dagli accenni di flamenco (“Kiss Me Alot”) al rock (“Neal Cassidy Drops Dead”) fino alle classiche ballate (“I’m Not A Man”). La gran parte dei testi conferma come Morrissey avrebbe potuto avere (anche) una carriera lontana dalla musica, grazie a una capacità di scrittura che lo pone al di sopra della maggior parte dei cantautori contemporanei, con il coraggio di rime inusuali come, ad esempio, bambini e rabbia (“Everyone has babies / babies full of rabies / rabies full of scabies” da “Neal Cassidy Drops Dead”). L’attitudine punk nei testi ritorna nel brano che dà il titolo al disco, una canzone politica che tocca paesi in cui si vive una situazione difficile come l’Egitto, l’Ucraina e il Bahrain e che a tratti sembra non lasciare speranza alcuna (“Work hard and sweetly pay your taxes / never asking what for / oh oh, poor little fool”) se non nel finale (“No more you poor little fool / no more you fool”). Il suicidio (“Staircase at the University”), il dolore di un padre per la perdita del figlio (“Istanbul”) la difficoltà di definirsi uomo (“I’d never kill or eat an animal / And I never would destroy this planet I’m on / Well, what do you think I am? / A man?” da “I’m not a man”), i diritti degli animali (“The Bullfighter Dies”) e la morte (“Oboe Concerto”) sono alcuni dei temi trattati, spesso dalla parte dei disadattati. Come nel brano che porta il nome di una prigione irlandese (“But the only thing that makes me cry / is when I see the sky” da “Mountjoy”). Insomma ci si trova davanti a un Morrissey maturo, riflessivo e malinconico che semina le sue storie in un album forse non facile ma decisamente bello, di sicuro lontano dalla parola business del titolo.
(Marco Annichiarico)
In questi casi io vivo nel terrore, quella paura subdola e agghiacciante che paralizza i pensieri. E se uno dei miei miti d’infanzia pubblicasse un nuovo album, e quel nuovo album facesse schifo? Ve l’ho detto, vivo con l’angoscia che le vecchie glorie del passato facciano il passo più lungo della gamba, si sbilancino come una vecchia squillo che nasconde la cellulite nei pantacollant leopardati di tre taglie più piccoli. Il senso dell’umorismo di Morrissey ormai lo conosciamo tutti molto bene, il suo è vero e proprio “Humor”, ironia mista a sarcasmo con una punta appena accennata ma parecchio ingombrante di realtà e disperazione, quella malinconica tragedia che permette di osservare ogni ipocrisia con sguardo freddo e glaciale. Ma i diciotto brani della versione deluxe di World peace is none of your business mettono a dura prova persino me che la sera prendo sonno cullandomi con “Asleep”. Ok ok, sarebbero tecnicamente dodici, e ok, ci sono delle perle fra la folla, basti pensare a “Kiss me a lot” e “Istanbul”, uno si commuove davanti a simili dimostrazioni di genio, ma non riesco a non rimanere delusa. Mi annoio alla quinta traccia con “Earth is the loneliest planet” senza comprendere né l’esigenza di ripetere il titolo all’infinito, ne la presenza di Pamela Anderson nel videoclip. Io lo so che per i fan degli Smith e di Morrissey stesso sto scrivendo una pagina piena di bestemmie e parolacce, me ne rendo conto, capisco il punto di vista, sia chiaro, il mio cuore soffre a battere sulla tastiera, è terrorismo psicologico anche per me, credetemi! Ma sono delusa perchè ogni tanto senza volere sbadiglio.
Ogni volta ti carichi di aspettative che Morrissey non sempre riesce a colmare da solo, è la storia della sua carriera da solista, un singhiozzo di alti e bassi, una serie di centrifugati che prevedono un confluire unico di più stimoli, spunti, cambiamenti, esperimenti che non necessariamente riescono a legare armoniosamente gli uni con gli altri. “Neal Cassidy drops dead” è stata una pugnalata al cuore per capirci, il titolo prometteva lacrime invece sono rimasta con la fame di chi si aspetta di più. Come dicevo quel terrore, quella paura che ti incatena alla poltrona con lo sguardo spalancato in quei tre secondi che precedono la traccia numero uno può trasformarsi in: trauma “infantile” (si, mi piacerebbe…), oppure in un momento così fondamentale per il proprio percorso da correre verso il primo cassetto del comodino con le lacrime agli occhi per annotare tutto sul proprio diario, oppure ancora la terza ed ultima possibilità, ossia rimanere sul vago con l’angolo sinistro della bocca increspato verso l’alto, lo sguardo a mezz’asta e un po’ di confusione, di chi apprezza ma non del tutto, di chi si annoia eppure ogni tanto sorride. Un fifty-fifty?
(Chiara Manera)
A 55 anni, al decimo album solista e dopo quattro (più tanto altro materiale) con il gruppo, l’idea che ci siano ancora potenziali nuovi fan pronti all’ascolto è un’ipotesi che mi sento di escludere. Ad attendere il nuovo Morrissey resta solo qualche milione di fedelissimi, seguaci più o meno ferventi che qualunque aspettativa abbiano maturato negli ultimi cinque anni, disattesa o meno che sia, difficilmente rivedranno il loro giudizio sulla sua musica dopo “WPINOYB”. Detto questo il ritorno del Moz non segna alcuna svolta di sorta ma restituisce esattamente lo stesso crooner misantropo e cinico di sempre, i medesimi testi contemporaneamente irridenti (solo un paio di sgradevolezze più del solito), colti e disperati, con la carne animale sempre più sinonimo di omicidio e la nostra felicità in questo mondo sempre meno a portata di mano. E sarebbe già questo sufficiente a farci vedere in “WPINOYB” un bicchiere mezzo pieno ma fortunatamente Moz non è poi così stanco o arrugginito e in questo nuovo disco il cui principale difetto è quello di essere troppo lungo infila almeno cinque pezzi degni del suo repertorio migliore – fra filler di qualità spesso discreta – oltre a sperimentare suoni rinnovati rispetto alla sostanziale monotonia di Years of Refusal. Innanzitutto la title track, uno di quei pezzi per cui prenderlo a schiaffi e che invece non si può fare a meno di ascoltare e riascoltare, e “I’m Not a Man” in cui la penna di Morrissey ridicolizza alla sua maniera la cultura machista mentre il disco raggiunge probabilmente il momento di maggiore intensità. Poi le reminescenze smithsiane di “Istanbul” e i due brani in salsa spagnola “Kiss Me Alot” e “The Bullfighter Dies”, inno animalista del disco. D’altro canto la seconda parte di “WPINOYB” non è ugualmente incisiva – certi brani sembrano perfino superflui – e senza il giusto grado di fidelizzazione rischia di scorrere senza quasi lasciare traccia se non fosse per “Oboe Concerto”, in pratica una versione matura di “Death of a Disco Dancer” in cui Moz fa i conti con la prossima vecchiaia, e “Drag The River”, ballata totalmente ordinaria ma dalla melodia irresistibile. Tutto questo, sia chiaro, non è nulla di imprescindibile, solo un altro album dopo “Vauxhall and I”, ma è di gran lunga meglio di quanto ci si potesse aspettare, anche e soprattutto per il fatto che la carriera di Morrissey non dà ancora alcuna impressione di essere giunta al termine.
(Alberto Mazzanti)
A ogni sortita discografica di Morrissey mi ritrovo a pensare che è bello averlo ancora in giro. In fondo, il Moz è uno a cui non si chiedono rivoluzioni di alcun genere; al contrario, basta che continui a modulare la sua voce agrodolce, sempre sospesa in uno stato di gioventù ibernata, sulle note vellutate di poetiche malinconie. L’importante è che non scada nel cliché, non ci rifili patacche ruminate alla bell’e meglio. Ecco, da questo punto di vista, “World Peace Is None Of Your Business” non è che sia proprio centrato. Immagino che le chitarre spagnoleggianti entrino all’improvviso nell’altrimenti rocciosa “Neal Cassady Drops Dead” per ricordarci dove morì lo scrittore americano; buono lo spunto “narrativo” degli arrangiamenti, posticcio il risultato. Di passo prevalentemente midtempo, l’album pare indeciso se sposare un corposo power-pop o mescolare elettrico e acustico come fecero a loro tempo – e con migliori risultati – gli Aztec Camera. Anche i testi, di solito suo punto forte, paiono qui appannati. Per una “Staircase at the University” da groppo in gola e una “Istanbul” coi lacrimoni, ci sono troppi slogan da bomboletta spray a fare da zavorra: “Each time you vote/ You support the process”; “And humans are not really very humane/ And earth is the loneliest planet of all”; “The bullfighter dies/ And nobody cries/ Because we all want the bull to survive”. Insomma, tra le due penne del Moz di “World Peace”, preferisco quella meno avvelenata che utilizza per romanzare storie di ordinario sconforto; l’altra, la penna del crooner coscienzioso e consapevole, sarebbe meglio lasciarla in mani più capaci.
(Francesco Morstabilini)
Morrissey è un’icona del rock, un personaggio a tutto tondo, controverso, poetico, esibizionista.
Ho trovato questo album gradevole fin dal primo ascolto, ai livelli di “Viva Hate” e “You Are the Quarry”. Melodie accattivanti e coinvolgenti, fin dal primo pezzo, e poi: “Neal Cassidy Drops Dead”, incisiva e rockettara. “I’m Not a Man”, ritmo e melodia che saltellano in un girotondo sonoro. “Istanbul” echi passati, quando il sodalizio con Johnny Marr era al suo apice. “Earth is the Loneliest Planet of Eart” etnica e vagamente retrò.
Chi poi riuscisse a godere della deluxe edition, si ritrova ben sei brani in più, uno più bello dell’altro, su tutti “One Of Our Own”, marcetta contemporanea di piano e tamburi. La voce di Moz domina, inconfondibile e ammaliante, a caratterizzare indiscutibilmente un disco che contribuisce a migliorare di qualche spanna l’intera sua discografia solista; finora è stato un continuo alternarsi di album più o meno interessanti, con una curva al ribasso a metà carriera, che non faceva ben sperare sulle sorti future del british singer. Ma già l’ultimo “Years of Refusal” ci aveva trasmesso il ritrovato guizzo creativo di Morrissey e ora, con questo “World Peace is None of Your Business” è stata finalmente raggiunta quella maturità artistica, compiuta e completa, di cui già aveva dato prova con gli Smiths, che non esiterei a definire una delle migliori band degli anni Ottanta.
Prima di partire con la recensione, credo sia necessario specificare alcune premesse, visto il personaggio di cui si sta per parlare: – Morrissey è, nel bene e nel male, uno dei personaggi più importanti e influenti della musica degli ultimi 30 anni.
– Non ho mai idolatrato gli Smiths, non ho mai dormito con i loro dischi sotto il cuscino, non ho mai dato grande peso alla carriera solista di Morrissey.
– “The Queen Is Dead”, e qui forse cadrò in contraddizione ma è così, è uno dei viaggi musicali nel disagio psicologico degli adolescenti più bello e prezioso.
Detto questo, che scolpisco nella pietra, senza possibilità (per limiti spaziali) di approfondire, capirete forse in parte il sentimento con cui mi sono apprestato a sentire questo nuovo, attesissimo, “World Peace Is None Of Your Business”; eppure, a partire dall’omonimo pezzo di apertura, si sente che tira un vento differente. Per carità, da uno come Morrissey non c’è da aspettarsi grandi cambiamenti di stile però, e forse qui per la prima volta nella carriera solista, non si sente (più di tanto) la mancanza del fido Johnny Marr. Già questo è uno dei grandi pregi di questo nuovo album (e vi pare poco?), che riesce a mescolare le influenze più svariate, non stravolgendo il mood e la voce che lo hanno, giustamente, reso famoso. Così le atmosfere, sempre permeate di quella romantica tragicità e dalla tagliente (auto)ironia, si muovono tra i fumi nostalgicamente smitshiani della title-track, il languido canto sostenuto da chitarroni ed elettronica di “I’m Not A Man”, i maestosi fiati (e un testo meraviglioso) di “Oboe Concerto” e i quasi latinismi di “Kiss Me a Lot”. Morrissey è tornato, dopo 5 anni e con il suo decimo album, ed è riuscito a dimostrare come, invecchiando, sia ancora possibile maturare.
(Matteo Moca)
Cinque anni sono tanti, ma cinque anni senza Morrissey possono sembrare un’eternità. “World peace is none of your business” arriva dopo “Years of refusal“ del 2009 e ci riconsegna un Moz, per nostra fortuna, in splendida forma. Ci mancavano le sue canzoni, le sue parole, la sua cinica visione del mondo. Ci mancava quel timbro inconfondibile, la sua eleganza, la supponenza con cui ci sbatte in faccia la sua superiorità morale. Ci mancava tutto questo. Sì, decisamente ci mancava.
Tanti nuovi brani di cui parlare, ben 18 nella versione deluxe, a partire dall’emblematica title track, che senza troppi giri di parole ci conduce a freddo nel cuore del lavoro. “World peace is none of your business” è una chiara invettiva nei confronti dei potenti, i politici e gli uomini d’affari, a cui non interessa minimamente la questione della pace nel mondo. Così come al cittadino medio, chiuso nella sua prigione dorata, fatta di duro lavoro e di dolci tasse da pagare (work hard and sweetly pay your taxes), con l’illusione di poter contare qualcosa col proprio voto. Ci va giù pesante anche in “The bullfighter dies”, quando volge lo sguardo alla Spagna e alla tradizionale corrida. Tutti vogliamo che il toro sopravviva e che il torero muoia. Questo, in sostanza, declama con i suoi versi al vetriolo, che non devono sorprenderci, in quanto la causa animalista è sempre stata al centro delle sue attenzioni. Concetto ribadito anche in “I’m not a man”, scandito dal verso I’d never kill or eat an animal. E che dire della copertina? Non ci spingeremmo troppo oltre se dicessimo che Morrissey prediliga rivolgersi ai cani piuttosto che ai suoi simili. Questo è Moz e noi ce lo teniamo stretto perché non potremmo fare a meno dell’eleganza di brani come “Istanbul” e “One of our own”, del suo animo afflitto e sensibile che si rivela in “Smiler with knife” e “Mountjoy”, del suo eterno amore per la letteratura. In “Neal Cassady drops dead”, infatti, omaggia la beat generation, parlando di due personaggi simbolo di quel periodo: lo scrittore Cassady, appunto, e Allen Ginsberg, poeta americano, follemente innamorato di lui. E semmai avessimo nostalgia degli Smiths potremmo sempre ascoltare “Kiss me a lot” e far finta che siano tornati tutti assieme felicemente. Ma questo è il mondo di Morrissey, il solitario mondo di Morrissey. Non c’è altro da dire, solo da ascoltare. Troveremo la bellezza dei suoi versi, troveremo i suoi pensieri scomodi sul mondo, sulla vita, su di noi, e ci darà da pensare. Non ci si può aspettare di meglio da un artista. Lunga vita a Moz!
(Salvatore Piccione)