Disquisizioni al cesso.
Il racconto della notte italiana del duo di Akron parte dal cesso di un autogrill sull’A24, quando è già notte fonda. La necessità di una sosta prima del rientro a casa è troppo forte e non possiamo lasciarci sfuggire l’opportunità della sempre vincente accoppiata Camogli&Birra post concerto. I bagni pubblici sono luoghi in parte affascinanti dove l’ispirazione per qualcosa di buono è sempre dietro l’angolo: “Ma perché non hanno suonato tutto l’ultimo album”, chiede un brutto ceffo mentre i presenti fanno allegramente pipì. Sono pronto a giurare che sarei voluto intervenire in quella grottesca conversazione tra perfetti sconosciuti ma, fortunatamente, non l’ho fatto, risparmiando così tutte le considerazioni del caso per le poche righe che seguono. La risposta, comunque, è semplice. Dopo otto dischi, una band come quella di Auerbach e Carney non deve veramente più niente a nessuno. Ora, avete presente “Weight Of Love” in apertura di Turn Blue? Bene, quella splendida e maledetta voce che entra dopo 2 minuti su una chitarra zozza è una dichiarazione nuova d’intenti sul fatto che le cose sono veramente cambiate e, forse, non saranno mai più come prima. E scordatevi per un attimo il blues, i garage della provincia americana più sperduta e pure i furgoncini magici di El Camino. Del resto, se ti chiami Dan Auerbach e nella tua vita hai già girato tutto il mondo in tour, duettato con Johnny Depp alla slide guitar, assistito Lana Del Rey durante il parto del suo disco più atteso e magari pure suonato al Glastonbury davanti a centomila persone… qualcosa dovrà pur significare, no?!
Il concerto.
A Capannelle di gente ce n’è veramente tanta, tutta assiepata in attesa religiosa. La sensazione che stia per succedere qualcosa di grande è il motivo comune condiviso da tutti quelli che si erano prima assicurati il loro posto all’interno dell’ippodromo. Il set si apre puntuale con “Dead and Gone” a cui seguono “Next Girl”, “Run Right Back” e “Same Old Thing”. Su “Gold On The Ceiling ” una tipa molto attraente, come posseduta da un demone antico, si arrampica sulle spalle del suo ragazzo che a fatica cerca di ristabilire un equilibrio precario. Ballano tutti. “It’Up To You Now” precede “Strange Days” e “Money Maker” prima di un’accoppiata niente male con la floydiana “Bullet In The Brain” e “Turn Blue” che suonata dal vivo è ancora più bella. “Howlin’ For You” inizia con la batteria quasi tribale di Pat Carney a cui segue a ruota la chitarra di Dan Auerbach, in uno dei pezzi che ha sempre meglio rappresentato lo stereotipo The Black Keys. L’entusiasmo ormai è alle stelle, la folla è abbastanza calda e si prosegue con “Nova Baby”, “Gotta Get Away” e “She’s Long Gone” prima della piaciona “Tighten Up”. La band si congeda così dal pubblico romano con la giustificazione migliore per la repentina ascesa mondiale e prima di “Lonely Boy” c’è “Fever”, in una sequenza che manda letteralmente in tilt il parterre. A questo punto sarebbe tutto bello che finito se non fosse che Auerbach imbraccia il suo dobro vecchio di 50 anni e inizia a sfiorare le corde per una versione talmente intima e suggestiva di “Little Black Subamrines” che da sola varrebbe già il prezzo del biglietto. E c’è anche spazio per “I Got Mine” ma non me la ricordo perché la canzone precedente è stata talmente intensa e profonda che la mia serata era finita in sostanza sulla voce che ripeteva che “lo sanno tutti che un cuore infranto è cieco”.
Captatio benevolentiae.
In conclusione posso dire di aver letto e intercettato ogni tipo di chiacchiera rispetto a questo concerto ma posso certamente testimoniare sul fatto che fosse comunque importante esserci e omaggiare una band che nel campionato dei più forti sta al vertice da tanto tempo anche grazie a dichiarazioni di questo tipo: “Non abbiamo mai imparato a leggere la musica, né a suonare con perizia i nostri strumenti, ma se cercate l’anima questo è veramente il posto giusto”.
(Gianpaolo Campania)